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Full text of "Uguccione da Lodi e i primordi della poesia italiana"

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BIBLIOTECA MEDIEVALE 

Volume I. 



UGUCCIONE DA LODI 






"^CL EZIO LEVI 



UQVCCIONE DA LODI 

E I PRIMORDI ^ ' 
DELLA POESIA ITALIANA 




no^is 



(H • 5 a^ 



FIRENZE 
LUIGI BATTISTELLI 

EDITORE 




Firenze — Tip. Fattori e C — Via de' Serragli, 51. 



Cap. I. 

La prima e rultima opera di Uguccione da Lodi: 
il ' Libro ' e I" Istoria.' 



L' episodio letterario che verrà studiato in queste pa- 
gine offre una delle prove piti limpide e schiette dell' in- 
certezza dei giudizi estetici che vengono accettati e messi 
in circolazione senza il controllo d' uno studio non super- 
ficiale del pensiero e dei fatti della storia contemporanea. 

Il nome di Uguccione da Lodi rimase sconosciuto a 
tutti gli storici della nostra letteratura fino a che — 
nel 1884 — Adolfo Tobler non ne ebbe ritrovata Popera 
nel codice Saibante-Hamilton della biblioteca di Ber- 
lino (n. 390) e non la ebbe illustrata e pubblicata in un 
breve ma denso e ben meditato libretto (1). 

In Ghristi nomine — avverte il codice Saibante (e. 50) — 
Questo è lo comengamento de lo libro de Ugugon da Laodho, 
E il libro segue infatti per 33 carte, senz' altra divisione 
distinzione che le iniziali rosse od azzurre delle lasse 
e certe piccole miniature che interrompono nei margini 
l'aspetto severo e monotono del testo. 

Il Libro si divide in due parti j la prima è formata 



(1) A. TOBLEK, Dag Bueh des Ugu^on de Laodho, Berlino, 1884, 
(Abhandlungen der Preuss. Akademie dcr Wisseneehaften xu Berlin, Y). 



di lasse monorime di alessandrini o di endecasillabi (do- 
decasillabi e decasillabi contando alla francese); la se- 
conda è formata di novenari (secondo il computo fran- 
cese, ottosillabi) riuniti in distici a rima baciata. Ma 
poiché la materia è la stessa, lo stesso è lo stile e il 
linguaggio, la diversità del metro costituisce un fatto 
del tutto esteriore, che non fu giudicato sufficiente per 
rompere l'unità organica delP opera, quale a noi si pre- 
senta e rivela. D' altra parte lo stesso titolo — Libro — 
cbe è così largo e comprensivo di significato, e la stessa 
avvertenza che apre Popera — Questo è lo comengamento — 
ci inducono a oltrepassare la fragile separazione che la 
ragione metrica colloca tra la prima e la seconda parte 
del poema e a por mente piuttosto alP intima essenza 
del pensiero che al suo vario atteggiamento esteriore. 
L' opera che ci sta innanzi è dunque tutta di Uguccione 
da Lodi, dal principio alla fine, e non d'altri che di 
Uguccione da Lodi. Se non che, riunite insieme le sparse 
frondi, ricomposto nella sua unità il Libro dell'antico 
rimatore, quale spettacolo squallido e desolato si apre 
davanti al nostro sguardo! L'unità dell'opera ci si ri- 
vela allora frutto piti della nostra rassegnazione di fronte 
allo stato delle cose, che frutto di ben sicuro convinci- 
mento critico ed estetico. A ogni passo ripetizioni e ri- 
cominciamenti di motivi ormai abbandonati e conchiusi, 
bruschi trapassi dall'uno all'altro concetto, contrasti 
violenti di ispirazione e di esposizione poetica. Manca 
del tutto la linea dell'edifìcio, il pensiero direttivo e 
dominante. E quel procedere barcollando e oscillando, 
quel rimbalzo da pensiero a pensiero irritano, angustiano 
ed offendono ogni lettore piti attento e coscienzioso. 



Se il Libro al quale diede « comengamento » Ugu§on 
da Laodho, è veramente opera di Uguccione da Lodi 
fino al suo termine, è segno che a Uguccione la penna 
tremava nelle mani. Egli non possedeva la signoria della 
sua parola né il timone del suo pensiero j era insomma 
un povero uomo e un povero artefice, la cui presenza 
rappresenta un ingombro — e non un acquisto — nella 
storia letteraria. 

E tale fu infatti il giudizio al quale pervenne fin dal 
primo momento lo scopritore stesso del Libro di Ugugon 
da Laodho : « sein dichterisches Yermogen und scine lit- 
terarische Bildung sind gleich gering » (1). Né la con- 
danna fu mai più attenuata o limitata dagli studi ulte- 
riori. « La poesia di Uguccione, diceva il Gaspary (2), è 
una predica prolissa, di composizione assai manchevole 
e piena di ripetizioni ». E il Wiese (3) : 

a La materia (del Libro) non è esposta secondo una spar- 
tizione certa, sì bene i diversi passi della poesia stanno so- 
vente soltanto in una rilassata connessione fra loro e qualche 
volta non ne hanno alcuna d. 

Il Bertoni, rievocando i « bruschi trapassi e gli strappi 
di pensiero » che sono la spiacevole caratteristica del 
Libro, riassume la sua analisi in questo severo giudizio: 
« il poemetto non ha alcun organismo » e « pare messo 
insieme con brani indipendenti l'uno dall'altro, male 



(1) Op. cit., p. 7. 

(2) A. Gaspary, Storia della leti, (tal., trad. N. Zingarelli, I. 112. 

(3) B. Wiese - E. Percopo, Storia della letter. ital,, Torino, 1904, 
pag. 41. 



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ordinati e male connessi » (1). Dopo tali precedenti, sem- 
brerà forse superfluo il ritornare sopra una questione 
ormai risoluta e sembrerà un perditempo il rimestare 
ancora le acque fangose delP antichissimo Libro. 

Ma il giudizio che è ormai consuetudine di recare in- 
torno al Libro di XJguccione è intorbidato dall'incom- 
piuta conoscenza dei fatti; e il raddrizzare quella stor- 
tura critica tradizionale mi pare, anche per le deduzioni 
metodiche che ne risulteranno, opera praticamente e spi- 
ritualmente profìcua, se pure essa si svolga in un am- 
bito circoscritto e modesto. 

Il difetto piti grave e piti profondo del Libro è il di- 
sordine delle idee. Invece di avere uno svolgimento si- 
curo e compiuto, i varii temi sono appena accennati e 
subito interrotti per essere ripresi poi dopo, talvolta 
a distanza assai grande, senza che a noi sia dato indo- 
vinare la ragione di questi sbalzi capricciosi ed assurdi. 
Di fronte a queste lacerazioni o « strappi di pensiero », 
come li chiama il Bertoni, quasi vien fatto di sospettare 
che il copista abbia trascritto nel suo codice Saibante 
un fascio di carte sconnesse e fuori di posto, senza cu- 
rarsi di rimetterle nel loro ordine originario e legittimo 
avanti di leggere e avanti di scrivere. Ma prima di coin- 
volgere nella condanna, oltre il poeta, anche il suo co- 
pista che per tanti altri rispetti è così benemerito delle 



(1) G. Bertoni, Il Duecento, Milano, Itìll, p. 186-188. 

L'identico giudizio reca L. Cazzamali, Uguccione da Lodi nell'Ar- 
chivio Storico Lodigiano, voi. XVIII (1899), p. 19: «L'operetta ha ca- 
rattere frammentario. Uguccione torna le cento volte sullo stesso 
argomento ripetendo i medesimi pensieri per non dire le medesime pa- 
role. Inoltre tra un brano e l'altro non c'è collegamento logico ». 



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letterature medievali (a lui dobbiamo quasi per intero 
il corpus dei poeti lombardi del sec. XIII), forse con- 
verrà chiederci se noi abbiamo veramente intese e com- 
prese le parole che egli prepone alP opera di Uguccione 
da Lodi: Questo è lo comengamento de lo libro de TJgugon 
da Laodho. 

La chiosa è chiara ed è onesta. Egli non pretendeva 
di darci tutto il Libro nella sua interezza e nella sua 
composizione organica, ma soltanto una parte, il comen- 
gamento. Probabilmente le carte che egli aveva sott' oc- 
chio erano assai antiche e logore ed egli, non sapendo 
come giudicare ed intendere, del giudizio e delP inter- 
pretazione ha voluto lasciare arbitro e responsabile il 
lettore, limitandosi da parte sua ad indicare il signifi- 
cato e P intendimento della prima lassa, che è il « co- 
men9amento » cioè il prologo del poema. 

Al to nome comengo, pare Deu creator, 
divina maiestà, verasio salvator. 

Anzi la parola comengamento appare estratta ed enu- 
cleata dal primo di questi due versi, che è il verso ini- 
ziale del poemetto. S'intende bene che la disposizione 
delle varie parti, quaP è nel codice, non ha alcuna pre- 
tesa di essere la vera e la primitiva, e — dato il va- 
lore così tenue delP avvertenza iniziale del copista — il 
« comengamento » può benissimo essere capovolto e col- 
locato alla coda. 

La più vistosa singolarità delP opera di Uguccione da 
Lodi è la sistematica ripetizione di ciascuno dei suoi 
temi (P indifferenza dei superstiti per i defunti, la cor- 
ruzione dei costumi, il giudizio divino ecc.) nella prima 



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e nella seconda parte, cioè nelle lasse dei versi maggiori 
e nei distici di novenari (1). Ed è appunto su queste 
ripetizioni che riposa il severo giudizio che i critici hanno 
concordemente compiuto e ribadito intorno all' arte del- 
l' antico rimatore. Ma si tratta veramente di « ripeti- 
zioni » dell' identica materia entro diverse parti di uno 
stesso libro? La distinzione che la diversità del metro 
pone tra le due parti dell'opera, si approfondisce e si 
allarga, quando si esamini da vicino la struttura di quelle. 
Sebbene il colorito linguistico e l'atteggiamento della 
frase siano uguali dal principio alla fine, le due parti 
dell' opera si distinguono l' una dall' altra per la profonda 
diversità di ispirazione poetica. La prima è tutta fre- 
mente d'un rude ma vigoroso e virile lirismo^ la se- 
conda è modestamente espositiva di dottrine evangeli- 
che e religiose. Nella prima il poeta apre la sua celata 
e ci rivela il suo maschio volto rigato di lagrime ; nella 
seconda egli ha cura di nascondere costantemente la 
sua personalità dietro le citazioni dei libri sacri. Sono 
dunque due opere diverse, compiute a distanza di molto 
tempo, forse di molti decenni, dallo stesso rimatore, con 
intendimenti diversi e con atteggiamento profondamente 
mutato. Ciascuno dei due libri è indipendente dall'altro j 
si inizia con una diversa invocazione a Dio, si chiude 
con una sua propria formula finale. Il primo comprende 
i vv. 42-702 (2) e non ha titolo alcuno j il poeta si volge 



(1) La lista di queste ripetizioni è stata compilata dal Toblbb, op. 
oit., p. 4. 

(2) I V. 1-41 costituiscono la prima lassa, che è introduttiva e forse 
fu aggiunta dopo la compilazione dei due poemetti. 

La distinzione tra il Libro e Vlsioria fu indovinata, ma non esat- 



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due sole volte a giudicare la sua opera e tutte due le 
volte adopera, parlando di essa, espressioni quasi uguali, 
ma sempre generiche e vaghe: 

Queste parole è bone e utel da scoltar 

(235) 
Queste n' è miga fiabe anz è bene rasone 
et è tute parole de libri e de sermon 
qe se pò ben contar en gascuna mason 
qe sea de caritad e de religion 

(197-200) 

Il secondo poemetto è assai più lungo e prolisso: 
1140 versi (703-1843). Sembra che, secondo l'autore, 
dovesse portare il titolo di Istoria: 

1069 e comen^emo tal istoria 

qe sea de seno e de memoria. 

I confini tra l' una e V altra opera, tra il Libro e Viatoria, 
si riconoscono non soltanto dal conchiudersi delle lasse 



tamente chiarita da V. De Bartholomaeis, Il Libro delle tre scritture 
e il volgare delle vanità di Bonvesin da Biva, Eoma, 1901, p. 23-24. 
« Io credo, egli dice, che si sia incorso in un errore considerando il 
Libro di Uguccione come una composizione unica polimetrica. Si tratta 
di 2 composizioni distinte. Chi non lo vedoi La prima, che è a serie 
di alessandrini monorimi, incomincia Al to nome contendo ecce si chiude: 
Mo ben me par ecc. La seconda, a ottonari accoppiati, incomincia a 
sua volta con l'invocazione: JRe de gloria, re possent eco. e termina: 
Voi qe m'audi et ascoltai ecc. » Il De Bartholomaeis non ha posto in 
chiaro ohe il Libro non iiicomincia col verso Al to nome comen^o, che 
appartiene al prologo, ma col verso Pare del celo altisemo. « Il primo 
componimento — il Libro — , egli osserva poi, è cosa destinata alla 
lettura, mentre nel secondo si sente la recitazione giullaresca, E poi- 
ché il nome di Uguccione da Lodi è premesso al primo soltanto, del- 
l'altro bisognerà dire, almeno fino a prova in contrario, che sia di 
giullare anonimo ». 



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e F iniziarsi dei distici, ma anche dalle formule di pro- 
logo e di chiusa. Il Libro incomincia così (v. 42-43) : 

Pare del ciel altisemo re de gloria posente 
gloriosa inaiesta verasi omnipotente 

L' Istoria diluisce entro i primi sei versi (703-709) 
la stessa formula, anzi le stesse parole e gli stessi at- 
tributi della divinità: 

Ke de gloria, re possent 
verasio Deu omnipotent, 
a ti prega e adora e ere 
tuta la ^ent qe aud e ve. 
Tu ei verasia poestate 
e iusta divina maiestate. 

Il secondo emistichio del verso iniziale del Libro e 
il primo emistichio del secondo verso costituiscono il 
principio e la fine della formula d'apertura à^W Istoria, 
Anche le due formule di chiusa del Libro e à^lV Istoria 
sono gettate nello stesso stampo. 
V Istoria finisce (v. 1841-1843): 
....el segnor 
darave vita eternai 
en la gloria celestial. 
E Deu la ne la dea, s' a lui plas. 

Il Libro si chiude con un' invocazione al « Ee de glo- 
ria », così come s' apre : 

Mo ben me par q'el sia de rason 

qe nui pregemo con grand devocion 

lo re de gloria q' el ne faga perdon 

e q' el ne duga con soa benediciou 

en lo so regno q' è de salvacion. 



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Dei due poemi, il Libro, che nel codice è il primo, 
è invece l'ultimo nelP ordine del tempo. V Istoria, la 
quale è accodata al Libro, deve cronologicamente ante- 
porsi ad esso, e ne costituisce la preparazione e la pre- 
messa spirituale. Uguccione da Lodi, che nel Libro si 
rivolge con malinconico rimpianto ai tempi della sua 
vita militare e pensa alla spada che nella giovinezza 
teneva « melo de lo conte Eoi andò », neìV Istoria parla 
della milizia come di cosa attuale e presente, e la pa- 
ragona, senza sgomento, senza rimpianto e senza ri- 
morso, alla difesa dell' anima contro l' assalto delle ten- 
tazioni : 

1507 Quel qe de esser conbatud 

voi bon osberg e fort escudj 

elmo e ganbere i' è mestier 

qe no li onfenda balestrier. 

Quelui q' è molto ben armato 
1512 ^à no pò esser afolato. 

Neil' Istoria a ogni passo si fa ricordo della dura lotta 
che l'uomo nella pienezza delle sue forze e nel vigore 
dei sensi deve sostenere contro le tentazioni e le lusin- 
ghe della vita. 

E si col gaio devemo far: 
enan§i q' el comenz cantar, 
si ensteso se conbate 
e con le soi ale se bate. 

Nel Libro quella lotta è ormai sorpassata. Il giovane 
che combatteva contro sé stesso come un gallo mattu- 
tino, è stato domato dal tempo j ha messo i capelli grigi 
e poi i capelli bianchi e adesso s'avvicina tremando 



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alla grande ora del commiato. « Eu sun veio e fer- 
ranto » (1). La fiera ed aspra lotta spirituale è finita 5 
e nell' anima regna soltanto una stanchezza mortale : 

Enfin q' eu fui govencel et enfanto.... 

.... entro li peccati eu ai demorad tanto 

qe sovente fladlie n' ai sospiiad e pianto. 

Mo è vegnù tal tempo q' eu son recreto e stanco. 

Il Liòro dei versi maggiori è dunque opera senile, 
mentre V Istoria in distici di novenari è opera della 
giovinezza. 

Il Libro è un'effusione lirica, non priva di intima e 
maschia vigoria. Il poeta si rivolge indietro a ripensare 
alla sua vita piena di trascorsi e di peccati, e con sgo- 
mento proclama che di quelli è prossima l'inevitabile 
sentenza, perchè i frutti della vita maturano nella morte. 
Alla morte, all'orrore della tomba, ai tormenti dell'in- 
ferno il pensiero del poeta torna e ritorna con insi- 
stenza dolorosa 5 e questa insistenza nella visione oltre- 
mondana, questa immobilità di spirito che pare un'os- 
sessione, hanno indotto i critici a gridare allo scandalo 
delle « ripetizioni ». Ma quelle che sono state chiamate, 
con grossolanità di linguaggio e grossezza di giudizio, 
« ripetizioni », sono le soste e le stazioni d' ogni ascen- 
sione mistica. Sono atteggiamenti spirituali consueti 
in ogni libro ascetico e in ogni lirica religiosa. Il Libro 



(1) Libro, V. 557. Ferrante = grigio ; cfr. il Contrasto provenzale 
dell'arma e del Cors, v. 190 (ed. Sutokius, 36): 
e pos jjer mi as tant vescut 

que'll peli n'as ferran e canut 

Nell'antico francese era più comune auferrant e si diceva di un ca- 
vallo bigio e pomellato; cfr. Diez, E. W. 582; Du Gange, Glossarium, 
III. 325. 



15 

di Uguccione da Lodi è invero una delle opere più so- 
lide e piti robuste della nostra lirica antica ed ha una 
tale altezza da sovercliiare di gran lunga il rachitico 
profilo dei poemetti di Gerardo Pateg, di Pietro da Bar- 
segapé, di Giacomino da Verona, coi quali viene di so- 
lito indebitamente frammischiato e confuso. 

Ben diverso è il caso dell' Istoria, Essa è opera gio- 
vanile, e dell'inesperienza della giovinezza reca tracce 
sicure sia nell' esposizione delle dottrine e sia nell' in- 
certezza e nella timidezza dei procedimenti artistici. La 
stessa forma della poesia, i distici di novenari, mostra 
che il poeta non sapeva staccarsi dai suoi modelli, che 
sono le composizioni didattico-religiose francesi, nelle 
quali quella forma metrica, che riesce strana e fasti- 
diosa nella letteratura nostra, era invece consueta e gra- 
dita. Talvolta piìi che di liberi rimaneggiamenti si tratta 
addirittura di versioni timidamente letterali, sicché è 
facile riconoscere nell'autore il principiante che compie 
i suoi primi passi, ancora incerti e barcollanti, sopra 
un terreno che pare sfugga ed oscilli. La debolezza di 
questo componimento spiega come l'autore stesso, ve- 
nuto a pili sicura conoscenza dell'arte e a piti grande 
maturità di pensiero, abbia sentito il bisogno di riela- 
borare l' opera propria, rifondendone i motivi principali 
nel nuovo poema fatto in lasse di alessandrini. Le co- 
sidette ripetizioni sono frutto di questa rielaborazione 
compiuta dall' artefice ormai avveduto e scaltrito intorno 
all'opera infelice della sua giovinezza, già artisticamente 
e spiritualmente superata. L' Istoria ha la forma di ser- 
mone, che era quella che assumevano costantemente il- 
pensiero religioso e il pensiero politico nel secolo XII 



16 



e nel XIII j e al sermone ci richiamano le miniature 
che raffigurano (v. 1595) un frate in pergamo nell'atto 
di dispensare ai fedeli la buona novella (1). Quale poi 
fosse il disegno di quest' opera, come procedesse lo svol- 
gimento delle idee e la concatenazione dei motivi, a 
noi sfugge in gran parte, anche per lo stato confuso e 
lacunoso del codice. Non è improbabile che il poeta 
stesso non si sia più curato di porre ordine nelle varie 
parti, che egli aveva desunto qua e là, da libri sacri 
e da libri francesi, avendo ormai maturato il disegno 
di rielaborarne la materia poetica nel Libro d'alessan- 
drini e in altre opere di più esatta architettura, lì' Istoria 
è dunque un abbozzo, lasciato grezzo e incompiuto a bella 
posta. Sarebbe vano porvi ordine, sostituendo la nostra 
alla volontà del poeta e facendo violenza ai suoi inten- 
dimenti. La prima parte ^q\V Istoria (v. 725-1020) è co- 
stituita da un gruppo di variazioni intorno al motivo 
della morte, la quale riserba ai giusti il premio e il ca- 
stigo ai peccatori ed annulla ogni altra distinzione tra 
gli uomini, non rispettando né le età, né gli onori, uè 
le ricchezze e le grandigie. 

869 Pensai o è 1' enperador 

el Papa e li vavasor 

e Re e dus, marqes e conti 

qe destrengea pian e monti. 

Q'eu men recordo morti tanti 

qe de vivi non son cotanti, 

(1) Non si tratta dunque di opera giullaresca, come hanno giudicato 
il De Bartholomaeis (op. cit.) e il Graf (Giorn. storico della leti, 
ital. III. 459), ingannati dall'illusoria parvenza di certi richiami al- 
l'uditorio, ohe gli autori di Sermoni avevano forse presi a prestito 
dalla letteratura popolareggiante. 



17 



875 qe stava al mondo si altamente 

q' eii noi savria dire a mente. 

Mo qe ie valse la soa grandegaf 

Né la soperbia né la matega? 

è li vai ri el grand tesor? 
880 E li vaseli d' argent e d' or, 

pali, scerlate et armelin 

riqi cendadi e cibilin, 

destrier e muli e palafren, 
884 casteg e roqe et altro ben? 

La serie di queste domande è tolta quasi letteral- 
mente dalle strofe di ottosillabi intitolate Vers de la 
mori, composte tra il 1193 e il 1197 dal frate piccardo 
Hélinant, monaco nell'abbazia cistercense di Froidmont 
(1160-1229): 

XXXI. Mors acuivertist Eoi et Pape(l).... 
XXVIII, Que vant quanque li siecles fait? 
Morz en une eure tot desfait, 
qui ne gieue pas a refaire. 
Que vaut quanqu'avarice atrait? 
Morz en une eure tot fortrait 
qui nul gieu ne pert par mestraire.... 
Morz fait valoire et sac et haire 
autant com porpre et robe vai re... 
XXIX. Que vaut biautez, que vaut ricbece? 
, Que vaut honneurs? Que vaut hautece? 

(1) Cfr. F. WULFF - E. W ALBERO, Les vers de la mori par Héli- 
nant moine de Froidmont, Paris, Sooiété dea Anoiens Textee Fran- 
5ai8, 1905, pag. 26. Assai vicino al testo di Elinando è anche il passo 
corrispondente del Libro (170-196); ma forse in questa lassa sono state 
contaminate molte altre strofe dei Vera de la mort (p. e. la XLVII). 
L'opera di Hélinant era popolarissima e di essa si faceva pubblica 
lettura. 



18 



Segue neir Istoria Pesposizione delle vicende di Adamo 
e di Eva condotti a perdizione dal peccato della gola 
(1021-1066). Il breve episodio, che rievoca la leggenda 
biblica del terzo libro della Genesi, naturalmente è meno 
vincolato degli altri che seguono e precedono dalle me- 
morie e dall' influenza della letteratura francese (1). Ma 
verso ben noti modelli francesi ci orientiamo subito 
dopo, col contrasto dell'anima e del corpo (v. 1067-1262). 
Numerosi sono i testi in lingua d'oil che svolgono que- 
sta antica leggenda. Oltre la Vision de 8. Paul e la Vie 
de S. Alexis che la racchiudono in modo episodico, ab- 
biamo due altri poemetti del sec. XII ad essa dedicati 
esclusivamente: l'uno assai complicato in forma di ser- 
mone (in lasse monorime) intitolato Li 'ver del ju'ise (2), 
l'altro piti semplice intitolato Béòat du corps et de 



(1) Qualche passo arieggia olV Adam, mistero anglo-normanno del 
sec. XII della biblioteca di Tours (K. Grass, Das Adamspiel anglo- 
normannisches Gedicht des XII. Jahrh., Halle, 1891). P. e. il discorso 
di Dio ad Adamo : 

1053 E sig dissel nostro segnore : 

— Mo vivré vui con grand sudore 
con questi moveri la terra..., 

richiama le parole parallele à&WAdam (434): 

Od grant travail, od grant hahan 
toi covendra manger ton pan; 
od grand paine e od grand suor 
vivras ta tot tens, noit e jor. 

Ma può essere che i due rimatori, P anglonormanno e il lombardo, 
si siano fortuitamente incontrati nel rimaneggiare il passo biblico della 
Genesi, III, 19: «In sudore vultus tui vesceris pane donec rever- 
taris in terram ». 

(2) Li vers del ju'ise. En forfransk predikan, Akademisk Afhan- 
dling af Hugo von Feilitzen, Upsala, 1883. 



19 

Vdme (1). NelP uno e nell'altro è caratteristica la forma 
della visione : un eremita assiste durante un rapimento 
mistico al dibattito di una o di piìi anime col rispet- 
tivo corpo. Nel secondo dei due poemi il Déhat as- 
sume il carattere d'un vero plait tra lo scolastico e il 
giudiziario, e si conchiude con la sentenza di Dio, 
così come ogni controversia universitaria o avvoca- 
tesca si suggellava col verdetto del maestro o del 
giudice (2). 

Nel breve contrasto tra l'anima e il corpo che è inserito 
neìVIstoria di Uguccione da Lodi mancano per l'appunto 
e 1' uno e l' altro dei due elementi caratteristici della 
poesia francese, la visione e il piato. Meglio che un 
vero contrasto qui abbiamo una semplice accusa del- 
l'anima al suo corpo ancor vivo che la trascina con la 
brutale forza degli istinti verso un destino non lieto né 
nobile. Ma l'episodio del contrasto tra l'anima e il corpo 
è uno dei più disordinati e dei piti logori dell'opera j 
dopo pochi versi il pensiero del rimatore si annebbia e 
si svia verso la parabola evangelica del ricco epulone 
e del povero Lazzaro. Interrompendo il soliloquio del- 
l'anima, il poeta fa seguire una versione quasi letterale 
dell'evangelo di S. Luca (XYI, 19-31). 



(1) Ed. dà H. Vabnhangen, Erlanger Beitràge zur Englisehen Phi- 
lologie, voi. I (1890). Ai secoli XIII e XIV appartengono altre nume- 
rose versioni della leggenda, le quali per ora devono rimanere estranee 
al quadro della nostra ricerca. 

(2) Intorno alle vicende di questo motivo, cfr. I. Batiouchkop, Le 
débat de Vdme tt du eorps in Bomania, XX, 1 e 513. Il lavoro del Ba- 
tiouchkof è assai arruffato nell' esposizione ed incerto nei risultati ; e 
andrebbe rifatto con maggiore chiarezza di pensiero e di esposizione. 



20 



Al contrasto tra l'anima e il corpo si ritorna dopo 
piti di 400 versi, alF improvviso (v. 1625) : 

L' anema dis con grand tremor: 
a Tu no me porte fé ne amor, 
misero corpo et irapio e tristo. 
Tinca no pense d'altro aquisto 
se no de rapinar aver.... (1). 

E qui abbiamo un vero débat^ che getta un filo di 
luce entro le origini, che sono nebbiose ed oscure, del- 
l' interessante episodio. Del resto che il libro, che IJguc- 
cione aveva davanti agli occhi, fosse proprio un poe- 
metto francese, è provato dalla lassa del Libro in versi 
alessandrini, dove V episodio dell' Istoria è rielaborato 
e riassunto. In questa lassa (v. 486) vi sono alcuni versi 
che paiono addirittura esemplati e , lucidati sopra il 
JDébat de Vdme et du corps franco- veneto: 

l'anima se laimenta q'è molto torinentàà, 
del corpo se reclama qe l'à mal albergàà : 
— Oi corpo maladeto! Così tu m'ài enganàà... 
Deu l'avesse voiii q'eu no fos unca nàà. 

E il testo francese (v. 823) : 

[l'arme] disoit mult vreement 

au cors: 

— Hai cors! Per toi songe perdue!... 

Hai Deus, por quoi me fais nestre? 

Meiz me feust nient estre ! 



(1) Anche il Tobler stesso (p. 91 n.) riconosce lo spostamento. 
« Nach 1624 — egli dice — ist eine Liicke nicht zu verkennen ; was 
folgt, gehort vermuteich linem andern Stttcke an ». 



21 



Questo Béhat de Vàme et du corps, che è passato sin 
qui inosservato agli studiosi della letteratura francese, 
è inserito in una vasta compilazione in distici di otto- 
sillabi (cioè in novenari) composta da un italiano nei primi 
anni del sec. XIII e trascritta in Verona nel 1251 (1). 
Questo componimento franco-veneto porta impropria- 
mente il titolo di Antechrist perchè soltanto la prima 
parte di esso è dedicata ai segni precursori dell'avvento 
e all'avvento dell'Anticristo j ma poi comprende tutta 
una serie di operette che sono estranee all'Anticristo : 
Les merveiles de la fin del mund, il Déhat tra l'anima e 
il corpo, VAdvocaeie Nostre Dame e una descrizione del 
Giudizio Finale. È un libro interessante per molti ri- 
spetti, e tra le altre ragioni una delle piìì cospicue si 
è il fatto che in esso si deve riconoscere la fonte del- 
l' Istoria e del Libro di Uguccione da Lodi. Il famoso 
passo à^W Istoria di Uguccione — inserito anche nel 
Sermone di Pietro da Barsegapé (2) — nel quale si 
riferiscono le parole di Gesti Cristo ai giusti ed ai 
reprobi nel giudizio finale (v. 1705 e sgg.), è tolto da 
Uguccione 2i\V Antechrist franco-veneto. 



(1) Si legge nel cod. 8645 della Biblioteca dell'Arsenale di Parigi; 
cfr. A. MusSAFiA, Zur Katharinenlegende in Sitzungsberichte der K, 
Akademie der Wissenschafien, Philos. - Hist. KL, voi. LXXV (1873), 
p. 248 ; P, Meyer, De l'expansion de la langue franqaise en Italie pen- 
dant le M. A., negli Atti del congresso internaz. di scienze sloriche, Roma, 
1904, voi. IV, p. 73. 

(2) Cfr. Die Beimpredigt dea Pietro da Barsegapé, Kritischer 
Text hgg. von E. Keller, Frauenfeld, 1901, v. 2220 e sgg.; cfr. E. G. 
Parodi, / versi comuni a Pietro da Barsegapé e a Uguccione da Lodi 
nella Rassegna Bibl. della Letter. Ital., voi. XI (1903), p. 116-124. 



22 



L'episodio in Uguccione comincia così: 

1705 Quand lo Segnor vera à duì... 
1723 li apostoli avrà grand paura, 

quand ig verrà lo ciel piegar 

e li arcagnoli tremar. 

L'episodio deìVAntechrist si inizia colle parole stesse : 

896 Quant.... li Sires sera venu... 
904 nus ni ert qui posse de paor 

regarder envers le Seignor, 

et li Angle trenbleront 

de la paor quo il avront. 

Ancor più vicini sono i due testi quando riferiscono 
il discorso di Gesù contenuto nell'evangelo di S. Mat- 
teo (XXY, 31-46): 

1019 Le seignor.... dira a autes voiz; 
1041 — Vos devez tot ensenble estre 

en la gloria del Paradis, 

que mon Peire ha promis... 

Vonez avant, si recevrez 

la joie que il vos promist.... 

Si je fu nu, vos me donastes 

vestiment et me vesitastes 

en la prison, quant je i ière. 
1060 Lors diront tuit a une voiz: 
1068 — - Beaus Sire, ò repasimes vos 

et t^abevrames? Dil-a-nos. 

(Antechrist). 

1738 El Re de Gloria a lor a dir: 
— Voi benedbeti, a mi uegni, 
lo meo regno posseder! 



23 



qu^eu v'ai prestad e preparato. 

— Eli vigni a vui povero e nudo, 
con alegreza fui recevuo 

e vestimenta me donassi.... 
da vui fui ben visitato. 
1051 Dirà li justi ad una vose 

— Quando te vit eu, Pare Santo 
et ó te servi eu cotanto? 

(Ugu§on). 

La somiglianza potrebbe anche giudicarsi fortuita dac- 
ché i due rimatori esercitavano parallelamente le loro — 
diciamo così — virtti poetiche sul medesimo testo evan- 
gelico. Ma Patteggiamento sintattico francese del discorso 
di Uguccione da Lodi e certe formule caratteristiche 
dell' Antechrist che egli accoglie, mi fanno ritenere che 
la loro comune fonte, S. Matteo, non abbia provocato 
quelle vistose coerenze verbali. Il verso Lor diront tuit 
a une voiz (Ant. 1060), Dirà,., a una vose (Ug. 1051) non 
ha corrispondenza nel semplice testo di S. Matteo: 
« Tunc respondebunt ei justi dicentes : Domine quando 
te vidimus esurientem et pavimus te ? » 

Ancor piil evidenti sono le relazioni tra i due passi 
che seguono subito dopo: 

1078 Li seignor respondra briement: 
1086 — Cho que vos feistes por moy 

as povres feistes, feistes a moy 

— on. 

[saÌB]on 

que vos sera guederdoné 

ce que vos lor avoz doné. 

{Antechrist). 



24 



1755 Jesó Cristo a lor a dir: 

— Quant voi veisse li miei menor 
e fesse-li ben, per meu amor 
voi '1 fesse enlora a me ensteso. 
Mo è vegnua la sasone 
que voi n'avré gnedardone. 

(Ugugon). 

Il guedardone è parola ben francese, tanto nello 
spirito come nel suono. Katuralmente V U vangelo di 
S. Matteo, che non conosce quell' istituzione feudale, 
non ne fa alcuna menzione. Appena ci scostiamo dalla 
narrazione dei fatti biblici e su dallo spettacolo delle 
cose ci innalziamo a un giudizio morale di esse, e vo- 
gliamo da esse trarre l'auspicio dell'avvenire e il giudizio 
riassuntivo del passato, ecco che i due testi si trovano 
subito mirabilmente d'accordo. E l'accordo del pensiero 
si suggella in un accordo non dubbio e di parola e di 
suono. Si noti per esempio come i due poemetti parlano 
della morte e dell' inutilità delle ricchezze e delle vanità 
mondane. Appena si sia varcato il confine della vita: 

Ne ia rien ne porterons 

de tot l'avoir que nos avons, 

vair, ne gris, ne or, ne argent, 

ainz serons vestu solement 

d'une stamine o d'un celice. 

{Ant. 805). 

E quest'aver qe nui avemo 
d'altrui fo tuto, ben lo sauemo. 
Serem vestidhi a la fin 
mai no de vair ne d'armelin 
mo de stamegna o de celigo. 

(UgU9on, 805). 



25 



Insomma V Istoria in versi ottosillabi di Uguccione 
da Lodi, sia per lo spirito che la anima e sia per il co- 
lorito stilistico con cui si presenta, rientra nel quadro 
ben definito della letteratura d'oil del sec. XII e dei 
primi anni del sec. XIII. Dietro i suoi modelli francesi 
il rimatore lombardo procede passo passo, con assai 
grande fatica e con non dissimulata titubanza ed im- 
paccio. 

Piti cerchiamo di penetrare entro i metodi di com- 
posizione di questo libretto, e più si fa limpida e 
netta la convinzione che esso non sia altro che una 
composizione giovanile, ben presto superata e rifiutata 
dallo spirito del poeta, quand'ebbe poi ritrovato altri av- 
viamenti e altre aspirazioni così nel campo del pensiero 
religioso come nel campo dell'arte. 



Gap. II. 

Accenni e motivi di dottrina patarinica 
nella poesia di Uguccione. 



Poiché tanto V Istoria in versi novenari quanto il 
Libro in versi alessandrini trattano di argomenti reli- 
giosi ed ascetici, tutti gli studiosi hanno sinora ritenuto 
che Uguccione da Lodi fosse un chierico, anzi un frate (1). 

La vasta dottrina religiosa, le numerose citazioni dai 
Vangeli e dai libri sacri, lo spirito sottilmente ragio- 
natore che si insinua in quei versi, ci richiamano alla 
vita ed agli usi claustrali. « Nel chiostro, dice il Tq- 
bler (2), forse il poeta nei suoi tardi anni fu tratto dalla 
preoccupazione della salvezza dell'anima sua ». Un'espli- 
cita dichiarazione di questo suo stato claustrale il poeta 



(1) « Era un frate — dice il Morpurgo (Biv. Critica della letter. 
italiana, voi. I [1884], col. 58) — qualità che gli si addice assai bene, 
non foss'altro per analogia coi suoi eguali fra' Bonvesin e fra' Giaco- 
mino ». E quest' idea di fare di Ugu^on un frate per simmetria 
con tutti gli altri frati del sec. XIII che scrissero poemetti ascetici, 
ebbe fortuna: « Uguyon, Barsegapé, Giacomo da Verona, Bonvesin da 
Riva appartennero tutti e quattro allo stato ecclesiastico» (Wie8e-Per- 
COPO, Storia, p. 40). « Ugu^on, Barsegapé ecc. ecc.: sono costoro chie- 
rici i quali recitano al popolo in maniera piana ». (A. Gaspary, Storia^ 
voi. I, p. 111). E risparmio le altro citazioni, con lo quali potrei con- 
tinuare per un bel pezzo. 

(2) A. ToBLKR, Das Buch, p. 5. 



28 



avrebbe lasciato in un luogo del Libro, dove ingenua- 
mente lamenterebbe di non essere ancora diventato, di 
semplice monaco, abbate (v. 389) : 

Se voi me volè crere, anc no se' eu abadho, 
et el ve plas entendre quel q'eii ai comencadho, 
aibai bona speran9a el segnor coronadho. 

Ma il senso di questi versi è proprio il contrario. 
Ugu§on, che ha esposto or orala dottrina della prede- 
stinazione e della fatalità del male, si sofferma a ripro- 
varla, assicurando i lettori e gli amici ch'egli è ben 
certo di essere nel vero, « ancora che egli non sia un 
abbate ». Ane no se^ eu abadho : sebbene io non sia 
punto un frate (1). Uguccione non ebbe dunque né chie- 
rica né tonaca né saio; egli era un laico ed un uomo 
libero. 

Certo la materia dei suoi due poemi é religiosa. Ma 
religioso, nel sec. XIII, non vuol dire ecclesiastico, né 
tanto meno claustrale. Anzi corre entro i due poemi di 
Uguccione da Lodi un soffio di dottrina patarinica ed 
antiecclesi astica. E piuttosto che la rassegnazione pa- 
ziente di una mente disciplinata alla legge del dogma, 
a me pare di avvertire nel fondo di questa antica poesia 
il pensiero tormentato e affannoso di chi cerca e non 
trova il suo vero. 

Per tutta V Europa, ma specialmente nelP Italia set- 
tentrionale e nella Francia meridionale, in questi anni 
(verso la fine del sec. XII) s'erano diffuse le dottrine 



(1) Intorno al significato avversativo di anche, ancora cfr. DiEZ, 
Ch-amm. II, 454; Meyer-Lììbke, Gramm. Ili, $ 648-649. 



29 



eretiche dei Catari. Eredi del pensiero dei Neoplatonici 
e degli Gnostici, i Catari (1) venivano dall'Oriente, che 
del Neoplatonismo e della Gnosi era stato la culla; e 
perciò li chiamavano anche bulgari (nelPantico francese 
hougres =: eretici). La dottrina dei Catari aveva non sol- 
tanto un valore religioso e morale, ma anche un' impor- 
tanza sociale e politica. Perciò s'era aggrappato ad essa 
specialmente il popolo minuto delle città manifatturiere 
(fabbri, sarti e lanaioli), che giaceva oppresso da un du- 
plice giogo, dal giogo feudale dall'aristocrazia e dal giogo 
ecclesiastico del clero e dei vescovi (2). Nelle Fiandre i 
Catari avevan preso il nome di tisserands o textores, 
perchè erano per lo piti i lavoranti dei telai j nella Sa- 
voia erano detti barbets, nel Delfìnato pauvres de Lyon 
(Leonistae), in Ispagna zabatati o insabattatos, 
portatori di ciabatte (sabotiers). 

Forse per la ragione stessa in Lombardia avevano 
assunto la denominazione di Patarini, cioè di cenciaiuoli 
e rivendugliuoli. La Pattarla era a Milano il mercato 
delle cose vecchie. Qui, dove s'accatastavano i rifiuti 
della città, forse non a caso i ribelli, cioè gli umili che 
la ferrea disciplina sociale del M. E. respingeva e che 
la civiltà rifiutava, si riunivano per predicare la loro 
dottrina. 



(1) Cf. Hahn, Geschichte der Ketzer im M. A., Stuttgart, 1845-1850; 
C. SCHMIDT, Histoire et doctrine de la sede des Calhares ou Alhigeois, 
Pftrie-Genève, 1847-49 ; I. von Dollinger, Beitraege ztir Sektengeschichte 
dea M. A., Muncben, 1890 ; F. Tocco, L'eresia nel Medio Evo, Firenze, 
1884, p. 73-2£.9; M. Menendez y Pelato, Historia de los Ifeterodoxos 
Espanoles, Madrid, 1880, voi. I, p. 415 e egg. 

(2) Cfr. G. Volpe, Eretici e moti ereticali dall' XI al XIV sec. nei 
loro motivi e riferimenti sociali, nel Minnovamento, 1907, voi. I. 



Assumendo la fisionomia e il carattere d' un pro- 
gramma politico, naturalmente la dottrina religiosa dei 
Catari perdette la sua primitiva purezza e i suoi linea- 
menti ben definiti, dovendo adattarsi alle mutazioni 
dei tempi e alle necessità della lotta pratica e della 
vita quotidiana. Ma anche attraverso le naturali defor- 
mazioni ed oscillazioni rimase pur sempre immutato il 
principio fondamentale del loro pensiero. I Patarini ne- 
gavano che l'uomo ed il mondo fossero creazione d'un 
solo Dio ottimo e perfetto. « In primis dicunt quod duo 
sunt principia, unum bonum et alterum malum, et 
quod a bono principio seu bono Deo creata erant septem 
cceli et omnia supecoelestiaj a malo vero principio seu 
malo Deo creata erant omnia quse sub illis ccelis sunt, 
scilicet omnia visibilia et qusedam invisibilia » (1). Il 
mondo, che è pieno di tante malvagità e di tante brut- 
ture, non può essere uscito dalla volontà di un essere 
buono come è Dio. Né dalla volontà di Dio può essere 
stato creato il corpo dell'uomo, che è fragile di fronte 
alle tentazioni del mondo esterno, e corruttibile di fronte 
all'azione della natura e del tempo. Tanto nell'atto della 
creazione originaria, come nell' immanenza della vita 
quotidiana bisogna dunque avvertire la presenza di due 
principi diversi e antitetici: lo spirito del Bene e lo 
spirito del Male (2). La vita è dura, l'esistenza è tra- 
vagliata e contradditoria perchè sordamente vi contra- 



(1) DoELLiNGER, op. cit., II, 321; 8Ì vegga anche la Summa can- 
tra Catharos ed. dal Doellingek, II, 374. 

(2) L'esposizione più completa delle svariate dottrine dei Catari è 
nel primo voi. dell'opera del Doellingek (Geschiehte der gnostisch- 
manichàischen Sekten), p. 110 e sgg. 



31 

stano e vi battagliano quei due principi eterni ed eter- 
namente contradditori. Il conflitto si compendierà solo 
con la vittoria di uno d' essi, con la vittoria del Bene 
sul Male, dello spirito sulla carne, dell'anima sul corpo, 
del cielo sulla terra, della luce sulle tenebre, insomma 
di Cristo sull'Anticristo j ma sarà allora la fine della 
storia, la chiusura dei secoli. 

Il segreto della felicità consiste nel progressivo scio- 
glimento dell'anima da tutti i viluppi che lo spirito del 
male ha posti intorno ad essa. Bisogna che l'uomo si 
liberi dalla schiavitù della materia che si traduce nella 
voce dei sensi, nelle lusinghe delle voluttà, e anche 
nella prigionia degli ordinamenti sociali che si propon- 
gono di tutelarne l' essenza. Perciò dalle due istitu- 
zioni che si attengono al regno della materia — cioè la 
guerra e la proprietà — aborrono e rifuggono quegli an- 
tichissimi ribelli, come da ordinamenti ispirati da una 
concezione del tutto materialistica, e quindi malvagia, 
dell'universo. Dall' idea filosofica e religiosa dunque si 
eran venute traendo tali illazioni politiche e sociali, che 
ben s' intende come la Chiesa e l' Impero, avversi tra 
di loro per tanti altri interessi spirituali e temporali, 
BVk questo terreno si fossero istintivamente raccostati e 
riuniti per combattere quell' « eretica pravità », che era 
una minaccia per ogni ordinamento presente. Più che 
l'antitesi delle dottrine teologiche, era il conflitto delle 
concezioni sociali che spingeva la Chiesa a perseguitare 
con ferocia talvolta inumana gli eretici, e a considerare 
l'eresia una mala pianta da estirparsi a colpi di zappa 
fino all'ultima e più sottile radice. 

Per tutta l'opera di XJguccione da Lodi serpeggiano 



32 



queste aspirazioni e queste suggestioni patariniclie. Il 
concetto del dualismo della Divinità e della coesistenza 
di due principi eternamente opposti è implicito in quasi 
tutte le dottrine racchiuse sia nelP Istoria che nel Libro, 
e talvolta vi si rivela con limpidezza e decisione. Il 
male era secondo i Patarini un fatto ineluttabile perchè 
al peccato il nostro corpo e la materia sono avviati dal 
genio stesso che li guida j è quindi inutile ogni nostra 
resistenza ed è superflua la lotta, se la nostra sconfitta 
è comunque già decretata e definita. A questa dottrina 
fatalistica della predestinazione Uguccione accenna più 
volte nel corso delle sue opere. « Sai que m' è inse- 
gnado? — egli chiede nel Libro (382-386): 

Sai que m' è insegnadho 
da un me bon amigo q'è ben enleteradlio ? 
ke tut è pervenuto de fin qe Pom è nadlio, 
QÒ q'elo de' aver no li sera taidadho. 
Paradis et Inferno tut' è predestinadho. 

Veramente a questo punto Uguccione respinge questa 
dottrina così crudamente riassunta e schematizzata; ma 
la sua ripulsa è priva di energia e spoglia d'ogni con- 
vinzione. Tant' è vero che poco dopo egli ritorna su quel 
concetto per farsene un'arma di discussione. Molti uo- 
mini, egli dice, vivono spensieratamente senza curarsi 
della morte, ma « si come è destinadho » (450) essi sono 
.^oi all' improvviso assunti al paradiso o scaraventati 
nell' inferno. Gli eretici, che con rigidezza dommatica 
amavano portare il pensiero cristiano fino alle conse- 
guenze estreme, della dottrina della predestinazione non 
accolsero nessuno dei temperamenti che S. Agostino e 



33 

gli scrittori più antichi, e poi meglio gli Scolastici vi 
inserirono allo scopo di salvaguardare la responsabilità 
e la volontà umana. « Nulla necessitas induci tur homini 
ad agendum sed qusedam inclinatio sola quam sapientes 
moderando refrenant » diceva S. Tommaso. E prelu- 
deva al pensiero e alla parola stessa di Dante {Purg, 
XYI, 67): 

Voi che vivete ogni cagion recate 
pur suso al Ciel, così come se tutto 
movesse seco di necessitate. 

Se così fosse, in voi fora distrutto 
libero arbitrio.... 

Sebbene riluttante ad accogliere le tremende conse- 
guenze logiche della dottrina della predestinazione, 
Ugaccione si lascia indurre dalla corrente stessa del 
suo pensiero ad ammetterne la verità immanente, priva 
di quei limiti e di quelle condizioni che la Chiesa vi 
ammise dopo un secolare dibattito (1). 

Anche il motivo del conflitto tra l'anima e il corpo 
che è comune in TJguccione si ricollega all' idea patari- 
nica delle dae Potestà antitetiche: Iddio che governa il 
regno dello spirito e l' Inimico che governa il regno 
della carne. I Neoplatonici avevano ben posto in evi- 



(1) Intorno alle oscillazioni del pensiero Agostiniano, cfr. A. Har- 
NACK, StoHa del Dogma, voi. V [Agostino e il Dogma in occidente] trad. 
ital., Mendrisio, 1914, p. 281 e sgg. 

Le discussioni, ohe seguirono specialmente nel secolo IX per opera 
del monaco Gottschalk, sono rissunte dallo Harnack, op. oit., p. 377 
e dal card. G. Hergenroetubr, Storia universale della Chiesa *, Fi- 
renze, 1905, voi. Ili, p. 186 e sgg. 



34 



denza la divergente natura della carne e dello spirito, 
ed ammesso che mentre questo è di creazione divina, 
l'altra è un'emanazione di un eon inferiore. Per il bi- 
sogno di reagire comunque al materialismo e alla car- 
nalità dei pagani, il Cristianesimo si appropriò quelle 
dottrine, forse non valutandone adeguatamente i limiti 
e i pericoli. Il conflitto dello spirito con la carne è già 
da S. Paolo rappresentato nella sua tragica necessità: 
« caro enim concupiscit adversus spiritum, spiritus au- 
tem adversus carnem » (Galat. v. 17). Kel Medio Evo 
per la smania, che gli è tutta particolare, di dramma- 
tizzare i fatti della vita interiore e di raffigurare in 
modo allegorico le teorie e le dottrine, quel conflitto 
della carne e dell'anima doveva naturalmente diventare 
un tema popolare e un motivo artistico. Ma già sulla 
fine del sec. XI Hildeberto di Tours (f 1133) si levava ad 
avvertire il pericoloso avviamento che quelle raffigura- 
zioni drammatiche conferivano al pensiero cristiano, 
poiché , deprimendo la carne di fronte allo spirito e vo- 
lendo per forza atteggiarlo quale una creatura derelitta 
e dispregevole, si istituiva un' artificiosa disparità tra 
gli elementi della natura umana, che Dio volle coerenti 
e armoniosi. Nell'esaltazione di Dio, involontariamente 
gli asceti ne mutilavano la grandezza, sottraendogli una 
parte ben rilevante della creazione. Nel libro in prosa 
e in versi intitolato De quaerimonia et conflictu earnis 
et spiritus Hildeberto di Tours fìnge di intrattenersi a di- 
scutere con una Donna, che è 1' Anima, la quale espone 
il suo divorzio dal corpo dopo il fallo di Adamo. Ma il 
poeta conclude e riassume il « conflitto » proponendo la 
riconciliazione e la ricomposizione del consorzio : caro fit 



35 



vir, spiritus uxor (1). La fioritura del motivo del conflitto 
tra Tanima e il corpo coincide cronologicamente con 
l'avvento delle dottrine eretiche, sicché alPeresia mi 
pare che si debba ricondurre il ravvivarsi del gusto 
per queste rafifigurazioni simboliche. Non voglio dire con 
ciò che tutte le scritture latine e romanze che racchiu- 
dono il famoso débat, siano opera di eretici o di ispi- 
razione eretica; ma certo la spinta alla diffusione di 
quelle opere e la ragione piti forte della loro popolarità 
consiste nel loro riannodarsi con la dottrina patarinica. 
Queir idea era cosi confìtta nei cuori, che per essa parve 
spesso non temibile la morte né terribile il martirio. 
S' intende come la lettura di quei testi, che a noi ora 
sembrano così aridi e insignificanti, allora invece do- 
vesse destare interesse e passione. Il russo Batiouchkof 
ha studiato il motivo del Bébat du corps et de Vame 
nelle letterature romanze soltanto da un punto di vista 
superficiale ed esterno, classificando le forme e gli at- 
teggiamenti folkloristici (2). Ma se egli avesse pen- 
sato che sotto la scorza delle forme esteriori freme in 
quelle opere anche una loro propria vita spirituale e 
che in esse oltre la storia di un semplice motivo let- 
terario si deve seguire anche la traccia d'una storia ben 
piti solenne, la storia del pensiero religioso, allora lo 
sviluppo della leggenda, dei fatti e delle idee gli sa- 
rebbe apparso forse diverso, certo piti sicuro e piti 



(1) Ven. Hildbberti, Liber de querimonia et conflictu earnia et spi- 
ritus seu animae, iu Migne, Palrol. Latina, voi. 171, col. 989-lO()4. 

(2) T. Batiouchkof, Le débat du eorps et de l'ame, in Bomania, 
XX (1891), 1 e 513. 



36 



chiaro. Quella letteratura, clie si presenta a noi così 
opaca nel freddo silenzio delle biblioteche, acquista vi- 
vezza e colorito quando la si coordini con la storia del 
pensiero religioso del Medio Evo, e si ricordi che essa 
era non di rado illuminata dal guizzo e dal lampo delle 
fiamme dei roghi. 

Un'altra dottrina esjiosta da Uguccione da Lodi è di 
origine e di atteggiamento ]3atarinico: la dottrina del- 
l'avvento dell'Anticristo. Anche questa leggenda è una 
rappresentazione mitica del principio dualistico che gli 
Gnostici avevano diffuso non solo nella Grecia, ma in 
tutto il mondo orientale. Questo concetto gnostico ser- 
peggiava fin dal quarto secolo a. C. tra i rabbini e i 
teologi della Giudea. Gli adepti di questa Eresia am- 
mettevano di fronte al Creatore l'esistenza di una Po- 
tenza antinomistica (Beliar) e perciò giudicavano la 
Legge di Dio non eterna, ma caduca e destinata ad es- 
sere, dopo una lotta secolare, sostituita dalla Legge del 
Nemico. In una delle profezie della Sibilla Giudaica, 
appartenente al tempo dei Triumviri di Roma, si ac- 
cenna all'avvento di Belial con particolari leggendari 
così precisi, che pare di leggere un testo medievale, 
posteriore di almeno dieci secoli. 

I primi Cristiani si confondono con questi eretici che 
con diverso atteggiamento e con diverso nome (Mi nei. 
Kainiti, Figli di Beliar) pullulavano nelle città e nelle 
campagne della Giudea, e tolgono a prestito da essi 
non soltanto una i)arte della dottrina, ma anche il se- 
greto delle loro confraternite e l'amore per le profezie 
escatologiche. Il capitolo deìV Apocalisse di S. Giovanni 
dedicato all'avvento dell'Anticristo pare ricalcato quasi 



37 

alla lettera sulla profezia dell'avvento di Beliàr che è 
negli Oracoli Sibillini, Del resto i primi scrittori cri- 
stiani hanno una ben limpida consapevolezza della con- 
nessione di questa loro dottrina con le eresie degli gno- 
stici ; secondo Ireneo la figura dell'Anticristo è appunto 
la « recapitulatio universae iniquitatis; in eo recapitu- 
latur sex millium annorum omnis apostasia et dolus » (1). 
L' impronta ereticale si venne a poco a poco logorando 
e cancellando sopra la figura delF Anticristo a mano a 
mano che il cristianesimo, allontanandosi dalle origini, 
perdette il carattere di dottrina battagliera per assu- 
mere quello di domma indiscusso imposto dall'autorità 
e rigidamente perpetuato nella chiesa. L'avvento del- 
l'Anticristo divenne una delle tante formule fossili, prive 
di contenuto interiore, che costituiscono l'apparato ar- 
cheologico della Chiesa. Ma quando le idee eretiche ri- 
presero vigore e il dubbio della coesistenza dei « Duo 
Principia » antinomistici ritornò a insinuarsi negli animi, 
allora entro la leggenda ormai da secoli sterile ed ina- 
ridita circolò il succo d'una nuova vita spirituale. I testi 
latini e romanzi della leggenda si moltiplicarono, e le 
scritture dottrinali e profetiche vennero lette con avi- 
dità e con inesauribile sete. Il t^mpo dell'avvento del- 
l'Anticristo che i primi scrittori cristiani avevano collo- 
cato in età assai lontane e nebulose, ora viene fissato 
entro termini sempre più vicini. Nella Expositio super 
Apocalypsim (1196) l'abbate Gioacchino da Fiore (f 1202) 
annuncia che l'Anticristo è già nato; pochi anni dopo 



(1) Su tutto ciò bì vegga il suggestivo libro di M. Priedlabndkr, 
Der Antichrist in den vorchriatisehen judisehen Quellen, G()ttingoii, 1901. 



38 



(1210) un altro scrittore gioacliimita proclama Antechri- 
stum jam esse adultum et diem judieii imminere. 

L'attesa della chiusura dei secoli si fa sempre piìi an- 
gosciosa e sicura (1). Questa certezza e questa angoscia 
risuonano nel lungo episodio di Uguccione dedicato al- 
l'avvento dell'Anticristo (v. 1263-1358): 

Lo mondo — è certo — de' fenir, 
.... Molto sera de reu aquisto 
quelui c'avrà nom Anticristo.... 

Sono sintomi della fine ormai prossima la corruzione 
del clero e la generale rilassattezza dei costumi. Gli 
eretici frugano con occhio sagace entro i mali della so- 
cietà contemporanea e con desolato pessimismo senten- 
ziano che nessun farmaco può ormai , chiudere quelle 
insanabili piaghe. Tutto il Libro di Uguccione da Lodi 
è percorso dall'orrore per la corruzione presente, e dal 
terrore per l' inevitabile conseguenza di essa : 

130 Avaiicia en sto segolo abunda e desmesura 
tradhiment et engano avolteri e soQura; 
9amai no fo la cent si falsa ni spergura. 

In questo pessimismo di Uguccione più che lo spirito 
ascetico, che è comune a tutto il Medio Evo, si riflette 
il terrore della prossima fine che fu particolare a quei 
decenni, a cavaliere tra il sec. XII e il XIII, nei quali 
le sette eretiche diffusero la convinzione che il rilassa- 
mento morale significasse l'ultimo sussulto dell'agonia 



(1) Cfr. E. Wadstein, Die eschatologisehe Ideengruppe: Antichrist, 
Weltsabbat, Weltende und Weltgericht, Leipzig, 1896. 



39 



del mondo. Uguccione infatti non si limita a notare la 
corruzione dei costumi dei suoi contemporanei, ma isti- 
tuisce un confronto tra lo stato presente e quello delle 
generazioni passate, desumendone che il male non era 
mai stato così grave e così profondo: gamai no fo la 
geni si falsa ni spergura» 

Uguccione avverte assai distintamente il cupo tra- 
vaglio delle forze che dissolvono il mondo; e questa 
visione gli ispira due versi di una vigoria non comune 
e di non comune bellezza: 

1455 Qe molto è fiera bataia: 

lo mond n'è tut en travaia. 

Naturalmente i due poemetti di Uguccione da Lodi 
non contengono un'esposizione sistematica delle dottrine 
patariniche, perchè il poeta voleva imprimere in essi il 
suo sdegno per la degradazione presente e la sua spe- 
ranza d'un avvenire migliore, e non farvi dell'arida teo- 
ria teologica. I due poemi sono frutto del sentimento e 
non del sillogismo religioso. Si deve inoltre osservare 
che la dottrina eretica si coordinò in un sistema e si 
irrigidì nelle formule soltanto piti tardi, quando la per- 
secuzione della Chiesa obbligò i confratelli a chiudersi 
nelle sètte ed a inasprire nella solitudine la loro con- 
cezione religiosa. E d'altra parte le teorie piti ardite 
sono esposte non già nei libri degli eretici, ma nelle 
accuse e nei documenti degli inquisitori, i quali do- 
vevano essere portati per lo stesso carattere del loro 
ufficio ad accentuare i confini e il colorito del pensiero 
eterodosso. La teoria eretica non ci si rivela che a 
frammenti, perchè essa doveva rimanere segreta tra i 



40 



confratelli. Le ricostruzioni sistematiche degli scrittori 
moderni sono spesso ingegnose, ma rappresentano un 
evidente artifìcio. 

Il maggiore legame tra i soci dell'una e dell'altra setta 
era il segreto che coinvolgeva non soltanto il dogma, 
ma anche la pratica della religione e della vita. Non 
sappiamo se vi fosse tra i Soci e i Fratelli una parti- 
colare disciplina e quale essa fosse. Certo alla gerarchia 
ecclesiastica corrispondeva, nell'ambito delle sette ere- 
tiche, un equivalente ordinamento pratico e religioso, 
che soltanto imperfettamente fu tratto alla luce nei pro- 
cessi dell' inquisizione. Pare in ogni modo che i con- 
fratelli (sodi) si dividessero in due ordini : gli umili e 
i perfetti, cioè i neofiti e i veterani. I veterani sono 
spesso indicati col nome di boni homines, nome che 
è comune anche ad alcune magistrature della repub- 
blica di Firenze e di altre città comunali. E le denomi- 
nazioni: « Bonus homo », « Bonus vir », « Bonus 
frater », « Bona soror », « Bonus socius », « Bonus spi- 
ritus » erano così consuete nell'uso ereticale, che tutti 
gli eretici venivano dagli estranei chiamati Boni ho- 
mines (BonshommesJ senza alcuna distinzione tra neofiti 
e veterani (1). Il testo ufficiale d'un concilio provenzale 
del 1165 ci assicura che gli Albigesi si facevano sen- 
z'altro « apellari Boni homines » (2); Boni homines o 



(1) Cfr. F. Tocco, L'eresia nel M. E., p. 98 e p. 106 ; Ign. Doellinger, 
Beitraege, I, 127. 

(2) «Anno.... 1165 talis diffinitiva sententia lata est super alterca- 
tione et assertione atque impugnatione fidei Catholicae quam expu- 
gnare nitebantur quidam qui faciebant se apellari Boni Homines». C. 
DuPLESSis d' Ahgentké, Colleetio judiciorum de novis erroiHbus, Parigi, 
1728, voi. 1, p. 85. 



41 

Boni Soci sono chiamati indifferentemente gli affigliati 
a tutte le numerosissime sette, che pullularono per l'Eu- 
ropa alla fine del sec. XII. Una volta un laico ebbe a 
chiedere a un eretico non so quale particolare della sua 
dottrina, ed egli gli rispose: « Fac te honum hominem 
idest haereticum, et postea dicam tibi » ! Quasi a ogni 
passo nelle carte dei Patarini si trova questa espres- 
sione, che ha ormai il carattere di una formula in- 
variabile: « bonus spiri tus idest hsereticus », « bonus 
homo idest haereticus » (1), « bonus christianus idest 
hsereticus » (2). In un processo dell' inquisizione un 
eretico rivela come i segreti procedimenti dell'eresia e 
l'autorità stessa della setta si trasmettessero « de ma- 
nibus ad manus honorum hominum ad bonos homines, 
et bonarum mulierum ad bonas mulieres » (3). 

La bontà era dunque nell'uso ereticale un concetto 
ben definito, i cui limiti e il cui valore possono facil- 
mente sfuggire a chi ignori il pensiero e i procedimenti 
delle sette eretiche del sec. XII. Ebbene: quell'espres- 
sione si ritrova alla fine della trascrizione toscana dei 
due libri di IJguccione da Lodi: 

(, Respice 

' Liber sogo buono. 

Queste i>arole cabalistiche si sono elevate come un 
mistero impenetrabile di fronte all'editore di questo te- 



li) DOELLINGEB, BeUraege, II, 208. 

(2) DoELLiNGER, BeUraege, II, 174. 

(3) DOBLLINGBR, BeUraege, II, 165; G. Zannoni, Gli umiliati nei 
loro rapporti con l'eresia, Milano, 1911, p. 42. 



42 



Sto. Quando lo pubblicò per la prima volta, nel 1904 (1), 
egli ebbe V idea di raccostare « So§o-Buono » a quella 
curiosa espressione « Sapiens-Stultus » che chiude i 
Proverbia que diciintur super natura feminarum nello 
stesso codice Saibante, che conserva il intéro e V Istoria{2), 

« Iste est ille qui invenit libriim de natura mulierum, et 
vocatur Sapiens Stultus ». 

La saggezza e la verità si mescolano, secondo una 
dottrina assai diffusa nel M. E., entro la parola del 

pazzo (3) : 

.... j'ai oi dire en escole: 
de fol ome sa gè parole. 

Così sentenzia un bizzarro poemetto, intitolato Cka- 
stiemusart, che l'autore dei Proverbia ebbe sottocchio 
ed ebbe certamente V intendimento di volgarizzare nelle 
sue 189 strofe tetrastiche. « Sapiens-stultus » è la tra- 
duzione latina di Chastie-musarty dal verbo francese 
chastier (assennare) e dal sostantivo musart (pazzo)j ed 
equivale a « Oastigamatto » (4). « Sozzo-Buono » sa- 
rebbe dunque un ravvicinamento paradossale di idee 
contradditorie sul tipo medesimo di Fol-Sage e di Sa- 



(1) G. Bertoni, Uh rimaneggiamento toscano del « Libro » di Ugu^on 
da Laodho negli Studi Medievali, S. I., voi. I, p. 235-262. 

(2) A, TOBLEB, Proverbia que dicuntur super natura feminarum 
nella Zeitsehrift fiir Boman. Philologie, IX, 287 e sgg. 

(3) La fonte dei Proverbia fu ritrovata e indagata dal Tobler 
stesso, p. 290 e da F. Notati nel Giorn. Storico della Lett. Ital. VII, 434. 

(4) Cfr. P. Meteb, Le Chastie- Musart d'après le ms. Sari. 4333 
nella Romania XV, 603; F. Torraca, Sapiens-Stultus nelle note Per 
la storia letteraria del sec. XIII, nella Rassegna Critica della letter. 
ital., Napoli 1906, voi. X, p. 97. 



43 



pietiS'Stìdtns, e designerebbe « il contenuto del testo 
che ha lo scopo di trarre altrui dalla sozzura del pec- 
cato e di menare il lettore sul cammino della bontà ». 
Ma a questa interpretazione, che è altrettanto fragile 
quanto è sottile, ben presto rinunciò anche lo stesso Ber- 
toni (1), il quale in So§obuono addirittura riconobbe 
il nome di quell'autore toscano o fiorentino che avrebbe 
avuto la strana idea di « rimaneggiare » le due opere di 
Uguccione da Lodi, V Istoria e il Libro, Alla costella- 
zione letteraria fiorentina del Duecento si dovrebbe ag- 
giungere così una stella non conosciuta o almeno un 
satellite nuovo: il rimatore Sozobuono. Ma Sozobuono 
era un nome fiorentino? « In realtà — assicura il Ber- 
toni (2) — un Bonus Socius visse a Firenze verso la 
metà del sec. XIII e compose un trattato degli scacchi ». 
Il nome di Socius-Bonus è contenuto nel prologo di 
un assai noto trattato De ludo scaccorum (3). Leggiamo 
queste righe : 

« Idcirco ego bonus socius, sociorum meorum precibus 
acquiescens, partita quae videram quaeque per studium de 
novo inveneram tam de ludis scacorum al§arum quam etiam 
marvellorum in hoc libello redigere procuravi ». 

« Socius bonus » non è dunque un nome proprio. 



(1) G. Bertoni, Il Duecento, Milano, 1911, p. 186. 

(2) G. Bertoni, Un rimaneggiamento fiorentino del « Libro » di 
Ugtifon da Laodho nei Bendiconti della B. Accademia dei Lincei, S. V. 
voi. XXI, p. 607-683. , 

(3) Good companion (Bonus Sooiue) XIII th Century me. Collection 
of Chess Problems ed. by James F. Mageb, Firenze, Tip. Giun- 
tina, 1910. 



44 



L'autore di questo Libellus, che doveva essere un ve- 
terano dell'arte — il Magee suppone che egli fosse un 
maestro arabo chiamato a Firenze nel 1266 dal conte 
Guido Novello (1) — si rivolge ai confratelli dell'arte 
sua con la stessa formula con la quale gli iniziati della 
dottrina ereticale si rivolgevano ai novizi. Evidentemente 
la sua arte gli sembrava una dottrina misteriosa e se- 
greta verso la quale si dovessero usare i delicati pro- 
cedimenti sacerdotali che i mistici adoperano iniziando 
i neofiti. Il maestro, fosse o non fosse l'arabo Buzecca, 
in mezzo ai confratelli dell'arte e ai « consocii » della 
sua setta si pavoneggia del nome e dell'autorità di « so- 
cius bonus » ; cioè si proclama tra i semplici dilettanti 
dell'arte il veterano e quasi il sacerdote depositario del 
tesoro dei tradizionali segreti e della dottrina avita. « Ego 
bonus socius, sociorum meorum precibus acquiescens.... ». 

La formula « Socio buono », che chiude nel codicetto 

di Modena i due libri di Uguccione da Lodi, ha un 

valore simile alla formula «socius bonus» che apre il 

trattato De Ludo Scacorum nel codice fiorentino. Non 

si tratta di un semplice explicit, ma piuttosto di un 

vero e proprio richiamo all'atteggiamento dottrinale del 

libro : 

Respice! Liber So§o Buono. 

Eespice non equivale a explicit, ma significa: « Bada! »(2). 



(1) Il Magee suppone che l'autore sia un certo Buzecca, scacchista 
arabo, la cui figura egli vorrebbe riconoscere in uno dei giuocatori 
della miniatura iniziale del codice. 

(2)11 «rimaneggiamento» si legge nel cod. Campori della Bibl. 
Estense di Modena. I, e. 4-21. Le parole Bespici ecc. sono a e. 21; e 
poi segue il vero explicit: Fenito libro referamus gratiam Christo ecc. 



45 

Attenzione ! È un libro da socio buono, cioè è un 
libro eretico. « Socius bonus idest haereticus » : tale 
è infatti la formula tradizionale delle sette eretiche, 
che si incontra quasi a ogni passo nei documenti del- 
l' inquisizione durante il sec. XIII. Sozzobuono non è 
dunque un nome proprio e tanto meno è il nome del 
rimatore fiorentino che avrebbe composto quel cosi detto 
Eimaneggiamento (1). Altro che Sozzobuono ! Quella for- 
mula rappresenta e richiama il colorito eterodosso delle 
dottrine che sono contenute nel l'opera; è un breve 
contrassegno, eppur esplicito e significativo (2). Ohi la 
scrisse probabilmente pensava al giudizio che Uguc- 



(1) I] Bertoni trova {Rcnd. dei Lincei, 611) clie la « grafia so^o dà da 
pensare in un testo toscano ». E infatti le confraternite eretiche dove- 
vano trarre molte delle loro usanze e quindi anche il loro linguaggio 
dal suolo Lombardo, dove la Pataria e i Paterini avevano avuto la 
patria e la loro storia gloriosa. Il nome Sozo (= socius), appunto per 
influenza delle fraterie dove questa denominazione era usuale, non è 
infrequente nell'onomastica lombarda; se ne vegga un lungo elenco nel 
glossario degli Atti del Comune di Milano fino al 1216, Milano, 1919. 
Lombardamente si aveva anche la forma so^on che corrisponde all'afr. 
soichon obi. di sooes (GtOdefroy, Bict. de Va. langue fran^aise, VII, 436 ; 
Zeitsehrift fuer Boman. Philol., 26, 667) ; cioè si poteva sostituire una 
forma analogica di obliquo alla forma nominativale. Sicché può essere 
che nel codice Campori si debba anche leggere : Liher sozon buono, 
anziché sozo buono (il cod. ha sosó). Ricordo che uno de' più antichi 
capi della confraternita degli Umiliati di Milano è indicato nei docu- 
menti (1178-1198) col nome di « suzone Baguttano » (cfr. L. Zannoni, 
Gli umiliati nei loro rapporti con l'eresia, Milano, 1911, p. 7). 

Forse non sarà fuor di luogo ricordare che i Cinquanta miracoli della 
Vergine (ed. E. Levi, p. 84) recano nel codice parigino questo explicit: 
Eo Bum qui sum, Bonus Homo sum. 
Ed Bum qui sum, Bonus Homo sum. 

(2) Quando espone la dottrina della predestinazione, Ugucoione ri- 
corda ohe essa gli è stata insegnata da un suo «bon amigo» {Lih., 383>. 



46 



cione stesso aveva dato della propria dottrina religiosa 
in quel verso del Libro: 

235 queste parole è bone et lite] da scoltar, 

che poi Pietro da Barsegapé — non so se con intera co- 
scienza del valore della formula eretica — ebbe poi ad 
allargare nel distico del Sermone: 

904 questo libro è molto bon, 
lo qual si à pluxor sermon. 



Gap. III. 



Altre due opere di Uguccione: 

il poemetto di Modena e il poemetto di Venezia 

e di Siviglia. 



Tra la composizione déìVlstoria nei distici di nove- 
nari e la composizione del Libro nelle lasse monorime 
devono essere trascorsi vari anni, quanti sono necessari 
a mutare in vecchio grigio e stanco un giovane che ci 
si presenta nel pieno fervore della lotta contro le sedu- 
zioni dei sensi e contro le difficoltà del noviziato del- 
l' arte. È mai possibile che durante questo periodo di 
tempo la voce del poeta sia rimasta sempre muta e sia 
rimasta infeconda la sua fantasia? La distanza che di- 
vide il libro della giovinezza, ancor così incerto nel- 
l' ispirazione e malsicuro nell'ordinamento, dal libro li- 
rico della maturità, presuppone un lento, continuo, assi- 
duo affinamento del pensiero, tutta una serie di tentativi 
e di esperienze poetiche. 

Non è da credersi che l'ascensione sia stata compiuta 
d' un sol balzo da uno spirito ormai impoltrito e arrug- 
ginito, da una mente sviata e disavvezza dall'esercizio 
dell' arte. Di queste opere che devono essere state com- 
poste durante questo periodo di lento ed oscuro trava- 
glio spirituale, noi ne conosciamo con sicurezza almeno 
due: un poemetto in distici di novenari intorno alla 



48 



contemplazione della morte e un poemetto in lasse di 
alessandrini intorno all'avvento dell'Anticristo. La forma 
metrica stessa ne indica l'ordine cronologico: i distici 
di novenari, evidentemente esemplati sopra la lettera- 
tura religiosa francese, richiamano alle letture e alle 
consuetudini della giovinezza; le lasse di alessandrini 
richiamano invece alla forma prescelta dal rimatore per 
il suo Libro lirico, ed ivi adoperata con la maestria e 
la decisione che soltanto la maturità del pensiero e 
l'esperienza stilistica possono conferire alla poesia. 

Il motivo della morte esercitò sempre una particolare 
seduzione sulla fantasia del rimatore lombardo; da quel 
motivo ha inizio la sua poesia, cioè la prima parte del- 
l' is;torm (v. 785-890), che segue nell'esposizione delle 
idee e nell'atteggiamento delle immagini i Yers de la mori 
di Elinando di Froidmont. È vana ogni ricerca di onori 
e di ricchezze perchè gli onori sono caduchi e le ric- 
chezze saranno lasciate in retaggio ai parenti immemori 
e spesso incuranti. Appena il loro caro è spirato, su- 
bito essi cercano di abbreviare le cerimonie funebri e 
l'apparato ecclesiastico del trasporto alla tomba; fret- 
tolosi di impossessarsi del danaro e degli averi, essi non 
hanno altra preoccupazione, né alcun riguardo di uma- 
nità e di gentilezza. Il loro cuore dà un balzo di gioia 
quando echeggia per la casa il rimbombo del martello 
che inchioda il coperchio della cassa, e quando s'ode 
il cupo fragore del « monimento » che si chiude. E così 
il .misero corjjo rimane a infracidire nella solitudine e 
nella fredda oscurità della terra, mentre l'anima, non 
suffragata neppure dalle preci dei parenti beneficati, 
erra per l' oltretomba nell' attesa del suo tragico destino. 



49 



La scena del funerale viene riassunta con maggiore 
vivacità e con maggiore densità di particolari realistici 
in una lassa del Libro in alessandrini (451-474). Il ca- 
davere « d' una vii vestimenta alò ven adobadho » : 

en un poco de drapo si fi avolnpadho 

de lo pe9or qMg pò, s' el do' esser compradho. 

Deu ! Con^ fregosamentre Io mestier fi cantadho ! 

Porta'l al molimento, lao el fi colegadho 

de malta e de calcina ferament sofrenadho. 

E mentre il povero derelitto viene lasciato nel silen- 
zio della tomba, i parenti si affrettano alla casa dove 
li attende il fumante banchetto: 

grossi boconi a far de 90 q' el a laxado. 

È una scena illuminata da un raggio di sottile umo- 
rismo, che vorrei chiamare Heiniano se fosse lecita que- 
sta anticipazione dei tempi. 

Tra il prolisso episodio delV Istoria (785-890) e la ra- 
pida scena realistica del Libro (451-474) è collocato, sia 
per riguardo del tempo e sia per lo svolgimento del pen- 
siero, il primo dei due poemetti intorno alla contempla- 
zione della mortej sicché può dirsi che questo costituisca 
da una parte la conclusione logica dell'episodio del- 
l' J«<orm e dall' altra parte la necessaria preparazione del- 
l' episodio del Libro, 

Del primo dei due poemetti sulla contemplazione della 
morte non abbiamo l'originario testo lombardo 5 esso è 
inserito soltanto nel cosidetto Rimaneggiamento toscano 
del socio buono. Questo presunto Rimaneggiamento si leg- 
ge in un piccolo libretto di pergamena della biblioteca 



50 



di Modena (1) ; e comprende, oltre il poemetto in distici 
di novenari sulla contemplazione della morte, cinque 
frammenti dell' Istoria di Uguccione da Lodi e un fram- 
mento del Libro, 

I — 1-74 = Istoria 735-836. 

II ~ 74-227 = Istoria 865-1018. 

Ili — 228-405 = Istoria 1085-1262. 

IV — 406-452 = Libro 429-473. 

V — 453-625 = la contemplazione della morte. 

VI _. 626-750 = Istoria 1705-1834. 

VII — 752-979 == Istoria 1362-1594. 

Se si tolgono le due parti centrali, la lY e la Y, 
ciascuno vede come la disposizione dell' Istoria non 
appaia profondamente mutata da quella eh' era nel co- 
dice Saibante. D'altra parte anche nel testo lombardo 
l' Istoria ha un aspetto così arruffato e confuso che non 
si può dire che quello sia il suo disegno originario e 
quella sia la forma definitivamente accettata dal poeta. 
Confrontando i due testi, le innovazioni del « rimaneg- 



(1) Cod. Campori n. I della biblioteca Estense di Modena. Sul ro- 
vescio della prima pagina si legge qiiesta noterella : Ghi sono iserite le 
feste et fuoro iscritte ani sesanta et quattro: in prima et secondo dì di 
fehraio Sancta Maria candeloruìn — S. Biagio tre di intrante febraio. 
Il Bertoni avverte che la festa di S. Biagio nell'anno 1265 cadde ap- 
punTO nel giorno di 3 di febbraio; e perciò assegna a quel codicetto 
la data 1264 (secondo lo stile fiorentino) cioè 1265 secondo il calenda- 
rio usuale. Ma C. Frati (A proposito di un rimaneggiamento fiorentino 
del Libro di Ugu^on da Laodho nel Giorn. storico della leti. ital. LXII, 
1913, p. 102 sgg.) cerca di confutare queste conclusioni e vorrebbe 
spostare almeno di un secolo la data del manoscritto, cioè fino all'anno 
1364. Il presente studio, che pone il problema sotto una luce del 
tutto nuova e del tutto diversa, elimina ogni altra difficoltà e rende 
inutile quella discussione. 



51 

giatore » si rivelano così tenui e così scarse, che non 
ci sembra lecito pensare che esse fossero intenzionali 
e dipendenti dalla sua volontà. Egli non voleva certo 
fare un'opera originale; ma soltanto intendeva di tra- 
scrivere, senza variazioni e senza innovazioni di sorta, 
V Istoria e il Libro di XJguccione tali e quali egli li leg- 
geva in un testo forse non molto dissimile da quello 
Saibante. La diversità dell'archetipo ci spiega da sé 
stessa la diversa disposizione della materia, come le 
particolari abitudini linguistiche del copista bastano a 
spiegarci il differente colorito dialettale che la poesia 
di XJguccione assume in quel codicetto di Modena. Della 
personalità del trascrittore è così debole la traccia in 
questo libro, che non è possibile attribuirgli le varianti 
nell'assetto delle parti già conosciute, nò la composi- 
zione delle parti nuove ed aggiunte (1); di queste egli 
non fu certamente l' autore, né l' inventore né il conta- 
minatore, ma esclusivamente il semplice e povero co- 
pista (2). 



(1) «Il nostro testo — scrive il Bertoni — è un vero e proprio 
rimaneggiamento del Libro di Ugufon da Laodho ». Perciò col ti- 
tolo di Bimaneggiamentù toscano il Bertoni lo diede in luco per la 
prima volta nel 1904 [Studi medievali V serie, voi. I, p. 235), e col 
titolo di Bimaneggiamento fiorentino la seconda volta, nel 1913 (Bendie. 
della B. Aecad, dei Lincei, serie V, voi. XXI, p. 607). Toscano e fioren- 
tino che sia, il poemetto non è punto un rimaneggiamento, ma una 
semplice trascrizione. 

(2) Sviato dal suo pregiudizio che il testo modenese sia un rima- 
neggiamento originale del Libro di Uguccione da Lodi, e non una sem- 
plice trascrizione letterale, il Bertoni arriva all' assurda conseguenza 
dello sdoppiamento della personalità del copista. « Anzi tutto — egli 
scrive (Bendiconti dei Lincei, p. 617) — non ò detto ohe fiorentini fos- 
sero insieme l'autore e il copista: floroutino fu a parer mio l'autore 



52 



La quinta parte del testo di Modena, cioè l'unica che 
non lia riscontro nel Libro e n^W Istoria^ è un breve 
poemetto in distici di novenari intorno alla contempla- 
zione della morte. È essa pure opera schietta di Uguc- 
cione da Lodi al pari di tutte le altre sei parti del libro, 
e non costituisce nelP opera di Uguccione né un' interpo- 
lazione, né una capricciosa contaminazione del copista 
o dei copisti, di cui non saprei definire l'intendimento 
o il valore spirituale. Uguccione da Lodi, che iììòW Istoria 
aveva già compiuto un abbozzo di quel poemetto, ora 
ritorna sopra il motivo che gli era famigliare e tenta 
di racchiuderlo in una nuova opera dove esso abbia mag- 
giore evidenza e una rappresentazione piti coerente ed 
organica. §i tratta in ogni modo di tentativi e di espe- 
rimenti, destinati a metter capo soltanto piti tardi ad 
un'opera definitiva che avesse struttura e lineamenti 
più sicuri. 

Nel poemetto intorno alla contemplazione della morte 
Uguccione non ha ritegno di servirsi abbondantemente 
del materiale stesso àOiìVlstoria, adoperando distici in- 
teri o serie di distici di essa. Sopra 172 novenari, 
quanti sono in tutto quelli della Contemplazione, piti di 



o piuttosto rimaneggiatore del nostro preziosissimo testo, e quanto al 
copista nulla possiam dire di sicuro salvo ch'egli dovè esser to- 
scano, non esclusa la possibilità che egli pure fosse di Firenze ». 

Altrove (p. 618) egli suppone che il « rimaneggiamento sia passato 
attraverso a molte copie »; insomma tutta una serie di autori, rima- 
neggiatori e copisti e un arruffio di rimaneggiamenti e di copie. Le 
cose invece sono ben altrimenti semplici e piane : da una parte Uguc- 
cione e dall'altra un suo semplice trascrittore, e non altri che costui, 
senza quella inutile trafila di intermediari. « Entia — dicevano i filosofi 
antichi — non sunt multiplicanda sine necessitate ». 



53 

venti sono tolti 'àlVIstoria, e una decina trovano il loro 
preciso riscontro in altrettanti passi paralleli del Libro. 
Eccone un rapido ragguaglio: 

Bimaneggiamento 471-474 = Istoria 881-3. 



» 


523 = » 


860. 


]> 


580-84 = D 


871 sgg. 


» 


483-487 = Libro, 


185 sgg. 


D 


570-574 = LibrOf 


63 sgg. 


D 


573-574 == Libro, 


173-74. 



Ma ancora più che il gran numero dei versi comuni 
è Patteggiamento stesso delle immagini e del fraseg- 
giare, è l'intima vita del i)ensiero di questo poemetto 
che grida la sua origine e svela il segreto della sua 
formazione. Kitroviamo qui lo stesso desolato pessimismo 
che rompe nei sussulti deìVIsteria^ lo stesso terrore di 
fronte alla tragica incognita della morte. E al realismo 
del Libro fanno riscontro qui i particolari curiosi e ta- 
lora pittoreschi della vita di corte, rievocata dal poeta 
sulPorlo di una fossa dove la salma sta disfacendosi 
nella putrida terra: 

483 Ov' ai le torri e li palaci, 

e 1' oro e le ricche magioni (1), 



(1) Il Bertoni stampa : ell'oro e li riechi magi, e non dà una spie- 
gazione di questa parola magi nel lessico ; ma la correzione è indicata 
dallo stesso v. 187 del Libro: 

le riqe magone e'I gran asi amonto 

Magi dev'essere integrato dunque: magi[oni^. 

Fa difetto una rima; segno che mancherà anche il verso seguente 
che le corrispondeva. 



54 



li buon granai pien di formento^ 
le canove (1) eh' avei del vino, 
e le gaalcliiere e li mulin, 
489 e '1 gioco e '1 riso e Palegrega? 

La stessa enumerazione è nella quinta lassa del Libro, 
dove si avverte clie non vale contro la potenza della 
morte 

173 palasio ni torre né nigun bastimento 

né rocca ni castel clave ni fermamento,... 
le riqe vestimento e l' autr' adornamento 
destrieri e palafreni vasieg d'oro e d' argento 
e le riqe masone e '1 grand asiamento.... 

E quelP idea è ribadita un' altra volta e un' altra volta 
replicata nel poemetto della contemplazione della morte, 
e sempre col medesimo accento: 

572 ....tosto giunge.... l'ora.... 

non si vale ni magione né torre né palago 

castello né rocca né fortega 
578 oro né ariento né riccliega. . . . 

Identico è dunque il materiale fraseologico; identico 
l'atteggiamento dello spirito, identica la vita del pen- 
siero e lo snodarsi delle immagini. Identico è in questa 
come nelle altre opere di Uguccione il modo di entrare 
in argomento, identico è il modo di uscirne mediante 



(1) Il Bertoni : le grosse channe eh' avevi del vino. Canta è invece 
la canova, cioè la dispensa; cfr. Archivio Olottol. XII, 393. 



55 



una frettolosa raccomandazione a Dio; identiche sono 
le formule di passaggio dall'una all'altra idea: 

525 Ma se voi ponete mente 

queste parole già non mente 

COSÌ come nel Libro: 

197 queste n' è miga fiabe anz è bone lasone 
et è tute parole de libri e de sermon. 

n nome di Uguccione da Lodi non è scritto nel co- 
dice di Modena. Ma che cosa importa? L' impronta del 
pensiero di Uguccione da Lodi è anche in questi versi 
così nitida, così profonda, così sicura, che essa costi- 
tuisce da sola una prova ben piti robusta d' ogni avver- 
timento di copista, il quale può anche essere menzo- 
gnero o fallace. 

Si è detto e si è ripetuto che argomento di questo 
poemetto di Uguccione da Lodi è il « contrasto del vivo 
e del morto » (1). Ma poiché il morto non parla e il 
contrasto ivi si riduce esclusivamente a un lungo soli- 
loquio del poeta sull'orlo di una fossa, mi pare certo 
che anche sotto questo rispetto il giudizio dei critici 
sia del tutto fuori di carreggiata. Il poemetto incomin- 
cia così: 

Amico, che giaci nel vaso 

ove a' tu '1 viso e li ochi e '1 naso (2), 

la bella bocca e i bianchi denti? 

Sono neri e ruginenti. 



(1) G. Bertoni, Un rimaneggiamento fiorentino, p. 615; C. Frati, 
A proposito di un rimaneggiamento fiorentino, p. 105. 

(2) Neil' ed. : ove a' tu le ricchezze ecc. 



56 



Le bianche mani e la persona, 

eh' a te pareva tanto buona, 

le braccia grosse, '1 busto grande, 

le cosce piene, le belle gambe? 

Tutte andate, non so corno.... 

Ov' ai tu le vestimenta 

e 1^ altre riche guarnimenta, 

vaio, grigio e Parmellino 

lo scarlatto e '1 ^abuUino 

che portavi nelle feste 

comò fussi Marques d' Este (1), 

Ov' ai gli asbergi e le ganbiere, 

le riche armi e lo guafiore 

e le coverte e i gonfaloni? 

E il poemetto prosegue incalzando con queste do- 
mande che sono Peco di quelle che ora abbiamo udite 
nei Vers de la Mori di Elinando ; e dalla vanità delle 
ricchezze trae via via svariati ammaestramenti morali 
e riflessioni religiose ed ascetiche: 

Or che sera di questo avere? 
Altri ne sera morbido e grasso; 
tu ne serai dolente e lasso 
entro lo 'nferno puzzolente : 
non iscerai mai di tormento. 



(1) Tutto il testo di Modena è profondamente guasto perchè il co- 
pista non solo frequentemente non comprendeva neppure il senso di 
ciò che leggeva, ma non aveva neanche l'accorgimento di cogliere ad 
orecchio il ritmo, che è ben cadenzato, dell' ottosillabo alla francese. 
Il V. 476 : ehome tu fussi lo marchese d'esto, ha 2 sillabe d' avanzo. Il pa- 
ragone col marchese d' Este induce il Frati (op. cit., p. 105) a pen- 
sare ohe il poemetto sia stato composto nel sèc. XIV « quando mag- 
giore era la potenza degli Estensi ». 



57 

H poemetto consta di 172 versi novenari e si chiude 
con una delle formule di commiato comuni nella poesia 
religiosa del Duecento: Dio ne difenda da quelV arte. 
Non solo dunque V intima struttura di questo compo- 
nimento, ma anche il suo assetto esteriore e le formule 
con cui è circoscritto, confermano che esso non è un'in- 
terpolazione insignificante, ma un vero poemetto, che 
ha una vita sua propria, una sua propria individualità 
e un suo proprio carattere artistico. 

Il tema fondamentale è la morte. Ritornano in questi 
novenari gli stessi motivi poetici e quelle stesse imma- 
gini che danno vita ai contrasti del vivo e del morto, 
dei tre vivi e dei tre morti (1), alle danze macabre e 
alle altre grottesche bizzarrie escatologiche del Medio 
Evo (2). Ma che questo componimento sia da ascriversi 
a quella ricca letteratura si può escludere con risolu- 
tezza, perchè se pure riprende temi e motivi di quei 
contrasti, esso è del tutto privo delPelemento che è es- 
senziale nel contrasto, cioè il dibattito e il dialogo. Non 
è una leggenda drammatica, ma è un'effusione lirica. 

Del resto il motivo della morte è assai piìi vasto che 
non sia l'ambito della letteratura dei contrasti e della 
leggenda dei tre morti e dei tre vivi, e dà ispirazione 
a una serie di opere dottrinali ed ascetiche, latine e 
volgari, che con quei contrasti drammatici hanno sol- 



(1) Cfr. E. Monaci, La leggenda dei tre morti e dei tre vivi, nel Gior- 
nale di Filol. Bomanza, voi. I, pag. 243 ; G. Bertoni, I tre vivi e i tre 
morti e le danze macabre nel voi. Poesie, leggende e costumanze del Me- 
dio Evo, Modena, 1917, p. 105. 

(2) P. Vigo, Le danze macabre in Italia^, Bergamo, 1905, p. 95 
e 8gg. 



58 



tanto una connessione assai lenta. La caducità delle 
ricchezze e degli onori, la vanità delle cose, l' immi- 
nenza della fine sono argomenti che gli scrittori asce- 
tici non si stancarono mai di rielaborare nei loro libri 
dottrinali e di offrire alla meditazione dei discepoli e 
dei lettori. Il più vivo e suggestivo di questi libri è 
quello che Innocenzo III (f 1216) compose nei primi 
anni del sec. XTII, intitolato De eontemptu mundi sive 
de miseria conditionis humanae (1). 

Era intenzione del grande pontefice di contrapporre 
la miseria della creta, onde è formato l'uomo, alla di- 
gnità e allo splendore dello spirito che è infuso in 
quella creta e le conferisce la vitaj ma della seconda 
parte dell'opera, De dignitate naturae humanae, è andato 
perduto il testo. O forse la morte ne interruppe la ste- 
sura. I tre libri De eontemptu mundi raccolgono e co- 
stringono in brevi periodi concettosi ed immaginosi 
tutto il pensiero pessimistico degli scrittori cristiani. 
Lo stile di Innocenzo III è secco e nervoso, e procede 
per scatti violenti e per imx)rovvisi accostamenti di im- 
magini, sicché la prosa acquista talora la rapidità del 
ritmo poetico. L'uomo « nudus egreditur, nudus regre- 
ditur; pauper accedi t, et pauper recedit.... O vilis con- 
ditionis humanae indignitas, o indigna vilitatis humanae 
conditio ! » (I, 8-9). 



(1) Innocentii III, Opera nel Migke, Patrol. Latina, voi. 217, 
p. 702. Intorno al valore e alle altre traduzioni volgari di questa ope- 
retta, efr. H. K. Mann, The Lives of the Popes in the middle ages, 
voi. XI [Inno cent III], 23. Non ho potuto vedere il libretto di 
F. Eeinlein, Papst Innoeenz III und seine Sehrift "De eontemptu 
mundi ", ein Bcitrag zur Gesehichte des Geistes im M. A., Erlangen 
1871-1874. 



59 



Non è questa, già nel testo latino, una viva e spontanea 
poesia ? 

Da queste pagine di Innocenzo III Uguccione da Ijodi 
deve aver tratto ispirazione per comporre non solo il 
componimento modenese, ma anche il libro in lasse 
d'alessandrini del codice berlinese e, come vedremo, 
Faltro libro del codice dell' Escuriale. Ho ora citato il 
motivo iniziale del poemetto di Modena: Amico, che 
giaci nel vaso. 

Ove a' tu '1 viso e li oclii e M naso, 

la bella bocca, i bianchi denti... 

le bianche mani e la persona 

eh' a te pareva tanto buona? 

.... Ov' ài tanti buoni mangiari 

che tu solevi ispesso fare? 

li bei bocon che quella gola 

collava hauti che fosse l'ora? 

Il testo di Innocenzo III dal quale questi versi pro- 
cedono è il terzo libro Be contemptu mundi : 

a Quid ergo prosunt divitise? Quid epulae? Quid delicise? 
Quid honores?... Qui modo sedebat gloriosus in throno, modo 
jacet despectus in tumulo -, qui modo fulgebat ornatus in aula, 
modo sordet nudus in tumba, qui modo vescebatur deliciis in 
ccenaculo, modo consumi tur a vermibus in sepulcro (III, 1) ». 

Il poemetto di Modena è un tentativo di versione 
poetica del libro di Innocenzo III, compiuto da Uguc- 
cione da Lodi forse con niun'altra pretesa che di fare 
un esercizio stilistico e metrico. Esso in ogni modo te- 
stimonia V impressione profonda che le pagine potenti 
del libro papale esercitarono sulla fantasia del rimatore. 
I molti versi dell' Istoria che Uguccione rifonde e ri- 



60 



prende in questo Poemetto e i molti versi del Poemetto 
che d'altra parte egli rifonderà e riprenderà più tardi 
nel Libro in versi alessandrini attestano la continuità 
del lavoro e la tenacia dell'arte. Lo spirito di Uguc- 
cione da Lodi non aveva ancora ritrovato il suo equi- 
librio j e attraverso questi successivi tentativi ci si ri- 
vela tormentato ed inquieto e perennemente preoccupato 
della ricerca di sempre nuovi perfezionamenti stilistici. 

E questa è gran lode per un artefice primitivo ed 
arcaico, collocato di fronte a una lingua senza storia, 
a un'arte priva di tradizioni e priva di quella disci- 
plina che nasce dall'affinamento dei tempi. 

Il libro di Innocenzo III, che ispirò almeno due dei 
tre poemetti di Uguccione da Lodi, era un'opera di così 
ricca vigoria poetica, che deve avere esercitato un'azione 
e una suggestione assai larga sui contemporanei. A 
quelle pagine è pur attinta l' ispirazione di un altro 
poemetto antico, che non è stato ancora compiutamente 
studiato né nel suo significato spirituale, né nella sua ar- 
chitettura esteriore. Questo poemetto è costituito di 328 
versi endecasillabi raggruppati in strofe tetrastiche mo- 
norime ; e, sebbene sia anonimo nei codici, fu attribuito 
a frate Giacomino da Yerona per il colorito linguistico 
veronese che esso presenta in una delle sue due ver- 
sioni, l'unica che sinora sia stata pubblicata. Si legge 
nel codice Marciano XIII, la ben nota silloge delle 
poesie dialettali venete del Duecento (1), e in un co- 



(1) A. MussAFiA, Monumenti antichi di dialetti italiani, Vienna, 1864 
(nelle Sitzungsberichte der Kais. Akademie der Wissenschaften, Hist. 
Klasse, voi. XLVI), p. 180 e sgg. 



61 



dice di rime lombarde della biblioteca Colombina di 
Siviglia (1). Questo poemetto Della misera vita delVomo 
non presenta alcuno dei caratteri propri all'arte di Gia- 
comino da Verona e allo spirito dei suoi tempi 5 e 
tanto per gli accorgimenti stilistici quanto per l'atteg- 
giamento del pensiero ci riconduce ad anni assai piti 
lontani. Mentre il poemetto modenese della Contempla- 
zione della morte in versi novenari traduce, riduce e ri- 
compone le immagini poetiche e le meditazioni conte- 
nute nel terzo libro del De miseria humanae conditionis 
di Innocenzo III, questo poemetto Marciano-Oolombino 
riprende a rimaneggiare l'opera di Innocenzo III fino 
dalle prime pagine, comprendendo, oltre il terzo, ancbe 
il primo e il secondo dei tre libri. 

Un gorno d'avosto dré maitin 

5Ó fo en la festa de Santo Martin, 

pensando el co, el mego et en le fin 

de la fragilità de Tom cattivo, 

Penser me pres de ditar un sermon 

de la vita e de lo sta del miser om. 

E, gracia n'aba Paltò Jesù bon, 

e' Pò complir pur de veraxie raxon. 
Dondo a vai, ke questo mondo amai, 

mercè ve clamo, vegnì, si m'ascoltai, 

k' e' ò speranza enl Re de li biai 

ke vui tornar ve n'avì mejorai. 

hom, hom, or comeugemo a dir.... 

(1) Bibl. Colombina di Siviglia, cod. 7, I, 52, e. 23: Del piango- 
lente naaimento de l'omo et della sua misera vita in del presente mondo 
et in della è dispriado da tuta ^ente. Il testo Colombino è inedito. È 
Btato scoperto dal Rajna. La tavola compilata dal Rajna durante il 
suo viaggio a Siviglia è stata pubblicata da L. Biadbnk, La Passione 
e la Beaurrezionc negli Studi di Filol, Romanza, voi. I, p. 270. 



62 



Tale è il prologo del poemetto. La formula iniziale, 
che ricorda i canti di primavera della lirica latina e 
delle PastoreiZe francesi («Au tans d'aoust que feuille 
de boschet » è nella collezione del Bartscb, II. 73) si ri- 
trova quasi identica in tutte le scritture lombarde del 
principio del Duecento. Eccola nei Proverbia super na- 
tura feminarum attribuiti al Patecchio (1): 

Qo fo el mes de mai 90 quando i albri florise.... 
lovaime una maitina a la stela diana, 
entrai en un gardino q'era su 'na fontana... 
Un penserò veneme qe me torba la mente 
de Pamor de le femene com'este fraudolente. 
Segnori, s'entendeteme, dirai ve un sermone, 
se lo volé enprender e entender la rasone.... 

Fenser me pres de aitar un sermon, dice lo pseudo 
Giacomino ; Un penserò veneme que me turhà la mente, lo 
pseudo-Patecchio. L'uno e l'altro collocano questo loro 
penserò entro la scena d'un mattino d'agosto o d'un 
mattino di marzo senza punto accorgersi del contrasto 
tra la bellezza della natura nascente e la banale cupezza 
di quel loro sermoneggiare. Il motivo ritorna in un 
altro looemetto lombardo : nel Detto dei villani del pa- 
vese Matazone da Galignano (2). 
151 Qo è del mes de mayo, 

quando lo tempo è gayo, 

una maitin me levay, 

in un zardin entray.... 

(1) A. ToBLER, Proverbia que dicuntur super natura feminarum 
nella Zeitschrift fiir Eoman, Philologie, IX, 287-331. 

(2) Ed, in Romania XII, 20 e sgg. e nella Crestom. di E. Monaci, 
p. 445. 



63 

dove s^avrà a ravvisare un^eco dei canti di maggio 
francesi. Bicordo la Complainte Sainte HJglise di Ru- 
tebuef che comincia con quelle stesse parole: 

L'autrier par un matin à Pentré de mai 
entrai en un jardin, por joer j alai. 

Fin dalle prime parole, fin dalle prime battute questo 
poemetto, che si è assegnato al territorio veronese, in- 
vece ci riconduce a Pavia ed a Cremona, all'arte arcai- 
cizzante ma non priva d'un tenue profumo selvatico e 
primaverile, del Patecchio e di Matazzone. Togliamo 
ora udire V inizio d' un poema di Uguccione da Lodi I 
Ecco il prologo deìV Anticristo : 

Cum eo me stava un yorno a unbria suttu un pin 
eo si dormii un sumnu e si visà uno viso. 

È il medesimo motivo che inizia il poemetto delle 
due biblioteche, Marciana e Colombina. Ed è il mede- 
simo motivo del Detto dei villani: 

Una matin me levai 
in un zardin entrai, 
guardai per lo zardin 
soto un verde pin. 
Li era una fontane! a ; 
d^or fin è la canela. 

Il poemetto Dela misera vita de V omo riassume 
passo passo tutta la dottrina contenuta nel libro De 
miseria umanae conditionis di papa Innocenzo j rievoca 
il dolore che accompagna la nascita dell'uomo, l'inuti- 



64 



lità del corpo umano mentre le erbe danno fiorì e gli 
alberi danno ciascuno il lor frutto, e ogni altra crea- 
tura dà carne, ossa, lana, cuoio (v. 65-75): 

Tu bel cognosci en parto e forsi en tuto 

cum lo to corpo rendo amabel fnito: 

piocli e vermi e fango molto bruto 

enxo de lei vivo e morto al pestuto, 
Mo en l'altre creature è de vaagno 

la carno e Poso, la lana e ^1 coramo.... 



Son le parole stesse di Innocenzo (I. 9): « Herbas 
et arbores investiga. Illae de se producunt flores et 
frondes et fructus: et beu de te lendes et pediculos et 
lumbricas. Illae de se fundunt oleum vinum et balsa- 
mum 5 illae de se spirant suavitatem odoris, et tu de 
te reddis abominationem fetoris ». 

QuaF è la somma della vita ? La vecchiaia, coi suoi 
acciacchi, colle sue delusioni, colle sue amarezze, E poi 
viene d'ogni nostra vicenda l'epilogo fatale e pauroso: 
la morte. 

A questo punto il poemetto Bella misera vita abban- 
dona la traccia della sua fonte latina e si allarga in 
una viva e drammatica raf&gurazione della scena d'un 
funerale. La tragica solennità delle immagini bibliche 
cede il posto a una rapida serie di scene realistiche 
tutte rilucenti di una festosa vivezza di colorito. Pare 
quasi che l'artefice, che ha costretto sinora il suo pen- 
siero entro le strettoie d'un modello troppo solenne, ri- 
trovando la sua primitiva ispirazione, si abbandoni 
gioiosamente e liberamente alla spontaneità della sua 



65 



poesia, e invece di dominarla e di costringerla, si lasci 
d'ora innanzi interamente dominare e condurre da essa. 
E ritorna qui l'umorismo delle scene parallele, che ab- 
biamo già analizzato, deìV Istoria, del Poemetto di Mo- 
dena e del Libro di alessandrini. Né abbiamo soltanto 
un semplice ritorno di motivi d'arte e di atteggiamenti 
del pensiero j ma ritornano gli stessi particolari descrit- 
tivi, le stesse minuzie di osservazione, le stesse imma- 
gini e talvolta gli stessi versi e le stesse rime. 

Appena il ricco ha tratto l'ultimo respiro, gli eredi 
impazienti si fanno intorno al cadavere ed esclamano : 
^à me par che 'l puda, e si affannano e si affaccendano 
per affrettare le operazioni del funerale. Tuti me par 
le' igi d'un cor sia — de farlo muar alhergaria, dice il 
poemetto « Della miseria umana » (237-8), rinnovando 
l' identica osservazione di Uguccione: 



857 Tnti me pare d'un talento 

pur de condurlo al monimento. 

Quando il mortorio s'è avviato, tutti corrono a tal 
galoppo — Ice Vun l'altro va pestando, E Uguccione : 

Deu! Come i va viagamente! 
Unca l'un l'altro non atende. 

Sarebbe lungo enumerare una dopo 1' altra tutte le 
corrispondenze tra le due scene parallele; e per darne 
un computo esatto bisognerebbe addirittura trascrivere 
uno di fronte all'altro l' intero testo dei due poemetti 
Io ho fatto per mio conto questo lavoro e credo che i 
lettori vorranno risparmiare a sé stessi ed a me l'ob- 



66 



bligo di rifarlo qui in queste pagine (1). Basti un solo 
esempio per tutti. I preparativi del funerale sono ormai 
compiuti, e gli eredi sono frettolosi e impazienti j ma i 
preti si fanno attendere ancora. Oh Dio, dice il poe- 
metto di Uguccione (250): 

Dell! Quanto li prevedi se triga! 
El no ie cai de l'altrui briga. 



(1) Ecco qualche tratto parallelo nel cosidetto «Rimaneggiamento» 
di Modena (-B) e nel Poemetto marciano-colombino (M) : 



Ké lo so arcoen questa misera 

[vita 

sempre sta teso per trar alcuna 

[sita. 

No gè vara papa né 'mperaor 

né Duxné re né Conto né vavasor 

M, 205-6: 199-200. 



FoU'è chi troppo dimora.... 

lo Ee de Gloria ha teso l'arco 

No vi vai magion né palco.... 

Quando lo Signore ti vole ferire 
non guarda Dux né Conte. 

B, 575-582. 



Ed ecco qualche particolare delle tre scene del funerale 



l'amisi cor e forte ven plangando, 
k' al cor pigol gramefa n'a sentir. 
M. 222. 

e le candele fate è altresì? 

M. 230. 

Deu ! Como tosto la messa se canta ! 
M. 269. 



Envolto en una sua cativa vesta 
....enla fossa igi t'asseta 

M. 289. 

E li plusor de dol par eh' igi mora 
Ke tu no ei 9à coverto en la bora. 
M. 275. 



Altri par que ne strangossa, 
que non ave miga angossa. 

Ugugon, 829. 

Non è ancor fate le candele? 

Ug., 839. 

Deu I Com fregosamonte lo mestier 
[fi oantado! 
Ug., 454. 

En un poco de drapo si fi avilupado 
de lo pegor q' igi pò 

Ug., 453. 

Tuti me pare d'un talento 
pur de condurlo al monimento, 
ilo lo sconde, dentro lo serra. 

Ug., 859. 



67 



E il poemetto marciano : 

244 Deo ! Quanto sta sti prevei.... 

Fia mandao, so Deu ve benediga, 
un om lo qual prestamente gè diga 
ke tropo sta e tropo fa gran triga (1) 
e ke '1 gè caja de l'altrui briga! 

Siamo di fronte a un plagio? E in questo caso, sarà 
lo pseudo- Giacomino che avrà saccheggiato Uguccione, 
od Uguccione che avrà depredato Giacomino 1? 

Non credo né alPuna cosa né all'altra. 

Il passaggio dalPuno all'altro poemetto deve essere 
avvenuto in modo assai piìi semplice e naturale, senza 
alcun perturbamento e senza alcuna manomissione. Il 
rapporto tra le scene funerarie contenute nei tre poe- 
metti (V Istoria di Uguccione, il Poemetto di Modena e 
il Poemetto Marciano- Colombino) è analogo a quello che 
intercede tra le altre scene parallele dell' Istoria in 
versi noverari e del Libro in versi alessandrini. Anche 
in queste si sono volute vedere ripetizioni o trasposi- 
zioni del tutto esteriori e meccaniche; ma esaminate 
con cura più delicata ed attenta, esse ci sono apparse 
invece rielaborazioni compiute dal rimatore stesso per 
un fine artistico ben meditato e secondo un metodo ben 
definito. I medesimi temi, passando dai novenari del- 
l' Istoria agli alessandrini del Libro, si sveltiscono, si 
affinano e ricevono una evidenza sempre maggiore. Lo 
stesso progressivo superamento si nota nel confronto tra 
le scene del poemetto marciano-colombino e le scene 



(1) Triga (indugio) è anche in Bonvesin od è vooo schiettamente 
lombarda. 



68 



corrispondenti nell' Istoria e nel poemetto di Modena. 
Sebbene il motivo sia identico e press'a poco uguale 
sia lo svolgersi del pensiero, il poemetto in versi en- 
decasillabi (1) si stacca dai due precedenti per il colorito 
piti fresco del fraseggiare, per lo snodarsi piti vivo e 
più svelto del dialogo. 

Nelle prime due opere di Uguccione è riconoscibile 
la linea rigida e legnosa d'un'arte primitiva ed arcaica. 
Nell'altra riconosciamo invece la robustezza e la vigoria 
d'un arte fatta più consapevole, più sicura, più scal- 
trita nei suoi procedimenti stilistici. Ma nulla insomma 
ci autorizza a sciogliere il nesso che raggruppa i tre 
componimenti e a ricondurne l'origine ad artefici diffe- 
renti. Noi ci troviamo sempre di fronte allo stesso poeta 
che di esperienza in esperienza, di ricerca in ricerca, 
affina il suo spirito, supera la sua maniera, rinnova e 
perfeziona la sua poesia. 



(1) Occorre anche osservare die il testo veronese pubblicato nei 
Monumenti antichi di dialetti italiani (p. 180-190), sebbene Adolfo 
Mussafia vi abbia impiegata la sua non comune perizia, è tutt' altro 
che soddisfacente. Il testo della Biblioteca Colombina, per quanto 
si può giudicare dai pochi versi (6) che ne ha trascritti il Rajna, 
appare più puro e più nitido e più coerente alla lezione originaria. Il 
codice Marciano XIII incomincia così: 

Un 9orno d' avosto drè maitin 
gò fo en la festa de santo Martin, 
pensando él co, él mego et en le fin... 
penser me pres de ditar un sermon. 
Nel mese di Agosto non vi è alcuna festa di S. Martino. Il codice 
di Siviglia ha una lezione più rispettosa del vero: 
Un gorno d' avosto driedo lo maitino 
gò fo en la festa deSantoAgostino. 
E sta benissimo: la festa di Santo Agostino cade il 28 di Agosto. 



Gap. IY. 
Il poema sull'avvento dell'Anticristo. 



Neil' Istoria in distici di novenari è inserito un breve 
poemetto intorno all'avvento dell'Anticristo (v. 1263- 
1358). Questo componimento non fa parte della serie 
dei vari temi religiosi trattati disordinatamente nella 
vasta compilazione di Uguccione, ma lia una sua pro- 
pria struttura, ben definita e ben caratteristica, e una 
sua propria vita indipendente dalla compagine del libro. 
Il rimatore intendeva a questo punto sciogliere il de- 
bole nesso che lega le une alle altre le varie parti del- 
l' Istoria, e dare principio a una nuova opera ideata 
secondo un disegno del tutto diverso. Che tale fosse la 
volontà di Uguccione da Lodi risulta ben chiaro dalla 
formula iniziale e dalla formula finale con le quali egli 
apre e chiude questo poemetto, circoscrivendolo di un 
confine non dubbio. Del resto l' intendimento del poeta 
è stato reso ancor più evidente ed esplicito dal copista 
stesso del codice Saibante, il quale accanto al primo 
verso ha collocato in lettere rosse il titolo del poemetto 
(Anticristus) e vi ha fatto miniare la figura dell'Anti- 
cristo che reca sul capo la corona e in mano lo scettro 
regale. 



70 



Il poemetto sull'avvento dell'Anticristo è una ben 
povera cosa, e tradisce la stessa inesperienza e la stessa 
incertezza che si notano nelle altre parti di questa com- 
pilazione giovanile del rimatore lombardo. Anche qui 
egli non sa svincolarsi dal suo modello e segue passo 
passo, con timidezza pietosa, il libro che egli aveva 
sotto gli occhi e dal quale egli intendeva di ricavare 
la sua materia fantastica, senza riuscire — purtroppo — 
altro che a volgarizzarne letteralmente e materialmente 
la parola. Quel libro era la JE pistola ad Gerbergam Re- 
ginàm del monaco Assone di Montier-en-Dé (f 992) 
composta verso la metà del sec. X (1). « L'Anticristo, 
dice Uguccione: 

1291 en Babilonia sera nato 
en molto forte destinato 
en Besaida e 'n Coro^ain. 

E il monaco Assone: « Antichristus nascetur in ci- 
vitatibus [Babilonia], Bethsaida et Oorozaim ». 
« Con lui — prosegue Uguccione : 

1297 .... sera encantadori 
felon e falsi enganadori j 
lo mondo a metre en ruina. 

E Assone : « habebit autem Antichristus magos, ma- 
leficos, divinos et incantatores ». 

I miracoli coi quali egli si rivelerà al mondo sono 
questi: faciet ignem de coelo terribiliter venire^ arbores 



(1) Cfr. E. Sackur, Sibyllinische Texte und Forschungen: Pseudo 
Methodius, Adso und die Tiburtinische Sihylle, Halle, 1898, p. 97-113. 



71 



subito florere et arescere»,,, aquarum cursus et ordinem 
converti, 

Uguccione, con pazienza da certosino, si industria di 
racchiudere queste parole nelPambito di quattro no- 
venari : 

fogo de celo farà vegnir 

legno seco farà fiorir.... 

P acqua que sol en ^os andar, 

el la farà en sue tornar. 

Tre sono i modi mediante i quali V Anticristo ten- 
terà di insinuarsi nelPanima dei fedeli: « tribus modis^ 
dice V Epistola, id est terrore, muneribus, et miraculis » j 
e Uguccione : 

Per tre mainerò de' guagnar: 
per li miraculi sera la una, 
l'autra sera per grand fortuna, 
la terga sera per aver. 

Ma alcuni non si lascieranno sedurre né dall'uno né 
dall'altro di questi accorgimenti maligni; e allora l'An- 
ticristo cercherà di vincerli con segni prodigiosi. Quos 
autem terrere non poterit, signis et miraculis seducere 
temptabit, Quos nec signis poterit, in cospectu omnium 
miserabili morte cruciatos crudeliter necabit» 

1341 Quili e' a lui no vorà crere 
per miraculi né per avere, 
ananti se li farà condur, 
ardre n'a far molti e destrur. 
Molti n'a far degolar e pendre. 

A questo punto finalmente la fantasia di Uguccione 
pare si ridesti dal suo letargo e scuota il giogo del suo 



72 



modello latÌDO. I tormenti dei ribelli non sono piti quelli 
apocalittici del monaco Assone (per serpentes sive per 
bestiasjf ma quelli medievali che chiudevano ogni pro- 
cesso eretico davanti ai tribunali ecclesiastici: la forca 
e la decollazione. Questo truce particolare è come una 
scudisciata sulla torpida fantasia di Uguccione, e co- 
stituisce un richiamo improvviso alla tragicità della 
vita contemporanea. Uguccione abbandona lo spettacolo 
dei miracoli così paurosamente descritti dal monaco 
Assone, e volge lo sguardo al mondo che gli è din- 
torno, altrettanto dolorante che il mondo della leggenda, 
e tutto agitato dal sussulto d'una catastrofe ormai im- 
minente. 

Ognunca dì me par più presso; 

La realtà è più fosca del testo del monaco Assone j 
la rovina del secolo presente è più profonda di ogni 
sconquasso apocalittico j la dissolutezza della « gente » 
supera ogni mala operazione dei seguaci delF Anticristo. 
E perciò Uguccione, in un impeto di sdegno, chiude 
V Epistola ad Oerbergam Eeginam e interrompe all' im- 
provviso il suo poemetto. Ma prima di abbandonare la 
penna, egli compie la promessa di ritornare un'altra 
volta sopra questo pauroso argomento, esponendo altre 
e ben più diffuse notizie intorno al « falsissemo mae- 
stro que de' vegnir contro Cristo ». 

1355 E, se '1 ve plas ancor audir, 

d'alquanti ere q'eu ve n'ò dir 
de quel falsissemo maesto, 
que de' vegnir encontra Cristo. 



73 



Questa promessa non trova la sua attuazione né nel 
Libro in lasse di alessandrini e neanche nel Eimaneg- 
giamento modenese j ma non si creda per questo che il 
poeta ne sia stato immemore. Con quel procedimento, 
che ormai il lettore di queste pagine gli riconoscerà abi- 
tuale e consueto, Uguccione riprese piti tardi quel motivo 
che era stato così bruscamente interrotto nelP Istoria, 
e tentò di conferirgli compiutezza e vita piti ricca in 
una nuova operetta di metro diverso; non piìi nei di- 
stici di novenari, ma nelle lasse di alessandrini, come 
è il Libro lirico. 

Il nuovo poemetto sull'Avvento dell'Anticristo 
riprende il racconto del monaco Assone proprio al punto 
dove era stato interrotto nell' Istoria (v. 1355) e svolge, 
con quell'ampiezza che ivi era stata annunciata e pro- 
messa, tutta la leggenda narrata néìV Epistola ad Oer- 
bergam Eeginam. Questo poema sull'Avvento dell'An- 
ticristo, che era rimasto ignorato sino ad oggi, è rac- 
chiuso in un piccolo libricino di pergamena, il quale 
ricorda, tanto per le sue dimensioni quanto per l'aspetto 
esteriore, il codicetto della biblioteca di Modena con- 
tenente le altre opere Uguccioniane. La piccolezza di 
questi due libretti induce a credere che essi non do- 
vessero essere destinati a una biblioteca solenne, ma 
piuttosto alla lettura quotidiana di qualche povero fa- 
natico o all'uso segreto di qualche conventicola di con- 
fratelli Patarini. Il piccolo codice che contiene V Avvento 
dell'Anticristo fu scovato per caso — e chi sa come! — 
a Firenze o a Bologna da un curioso ricercatore di libri 
vecchi, tra il 1540 e il 1550, e da lui fu portato in 
Ispagna e così sottratto da allora in poi alle indagini 



74 



e allo studio degli eruditi italiani. Ora si trova nella 
biblioteca dell' Escuriale (1). 

Il poema intorno all'avvento dell'Anticristo è costi- 
tuito di 66 lasse monorime di versi alessandrini, e non 
reca nel codice dell'Escuriale né il nome di Uguccione 
da Lodi né alcun altro nome: Incipit liher Antichristi, 
Ciò è ben naturale, perchè né il « socio buono » che 
compilò il codice di Modena, né il trascrittore di que- 
sto libretto dell' Escuriale avevano il proposito di rac- 
cogliere delle opere letterarie nelle quali la figura e 
l'arte del poeta fossero messe in particolare rilievo. Essi 
intendevano racchiudere nelle loro rozze pergamene sol- 
tanto la dottrina religiosa o il racconto leggendario 
necessari al quotidiano nutrimento dell'anima. Le no- 
tizie storiche e il nome degli autori erano per loro cose 
del tutto indifferenti ed inutili, perché essi miravano 
alla sostanza del pensiero e non all'atteggiamento e alla 
variabile parvenza esteriore di esso. 

Il nome di Uguccione da Lodi — dicevo — non é scritto 
in fronte al poema dell'Escuriale; ma che si tratti ve- 
ramente di un'opera uguccioniana é cosa altrettanto 
sicura quanto è indubbia l'attribuzione a Uguccione 
del poema anonimo sulla contemplazione della morte. 
In questo poema ricorrono le immagini stesse che si 
trovano nelP Istoria e nel Libro di Uguccione da Lodi 



(1) Bibl. dell' Escuriale D. IV. 32. 

Il codicetto spagnuolo è largo 9 cm. e lungo 13; quello modenese 
è un poco più grande (12x17). Tanto l'uno che l'altro paiono fatti per 
entrare nella tasca d'una tonaca; e sono così logori e sgualciti che 
palesano ben chiaramente la povertà delle origini e l'umiltà della loro 
storia. 



75 



e ne è identico il materiale fraseologico e stilistico (1)5 
le coincidenze del pensiero sono così esatte e così per- 
fette che V impronta Uguccioniana non vi si potrebbe 
rivelare con limpidezza piìi cristallina. 

Si veggano per esempio i passi dei due i)oemetti, che 
sono più indipendenti dalle loro fonti rispettive, cioè i 
versi che contengono una preghiera, i quali per loro 
natura hanno un lirismo piti spontaneo e schietto: 

Il Libro: 

526 De mi albe indulgencia. 

657 De mi, signor, abie remission. 

E V Anticristo : 

10 Sir, ahi indulgencia. 

15 Sir, abi indulgencia et abi redencion. 

Ecco ora una formula di invocazione a Dio che si 
trova nelV Anticristo: 

81 Ora n'aiuta, Deu, 9à sem toi creature, 
a ver tu ne creasti a le toi figur; 

La ritroviamo tal quale nel Libro (136): 

Ben savi qe ve disc la divina scritura: 
tnti seme formadhi a la soa figura. 

ed anche nelP Istoria (1255) : 

umana criatura 
que Deu à fata a la soa figura. 



(1) Se riferissi tutti gli esempi che ho raccolto, andrei troppo per 
le lunghe. Basteranno alcuni : « senz' ogno tenore » (AnUeristo 140 = 
Uguccione 38-648) — « santa cristentadhe » (Ant. 194-898 = Ug. 336) — 
« l'inferno infernor » (Ant. 337 = Ug. 31) — l'uomo « auso e bricon » 
(Ant. 138 = Ug. 664) eco. 



76 



« O Deu ke ne creasti misererò de nui! » — esclama 
il poema deìV Anticristo (79). E il Libro (25): « O Deu 
miserere, clama cascun de lor ». 

Le pene dell' inferno, dice V Anticristo (154), « molto 
è merevelose »: 

no le pò niil om dir tant'è periculose, 

col cor noi pò pensar né dir cum la vose. 

E il Libro (97): « le grand pene d' inferno » 

nui om no porave escoltar ni audir 

né en lo cor pensar né con la boca dir. 

L' Istoria (923) ha l' identica formula : 

.... le peno crudeliseme 
q^è tanto passim' e fortisseme 
que boca noi porla parlar 
né 'regie audir né cor pensar (1). 

Quando s'avvicinerà la fine del mondo, la terra, dice 
il Libro y arderà « comò cera scolàa ». 

479 altresì arderla corno cera colàa. 

L' identico verso è nel poema delV Anticristo : 
413 altresì comò cera la tera se a scolar. 

Una delle idee più. strane di Uguccione si è quella di 
raffigurare il signore nei cieli « sopra un alto monte » 
(134). La stessa rappresentazione è anche neìV Anticristo 
(419): « vera dal cielo a star suvra uno gran monte ». Del 



(1) L'immagine si ritrova anche nella Tenzone provenzale De 
l'arma e del cors (ed. Sutorius, v. 45) : 

oar tant es grant mon espavent 
que cor ni boca non pò dir. 



77 



resto, quasi codesti fatti non fossero di per sé stessi 
abbastanza significativi ed eloquenti, Uguccione da Lodi 
ha provveduto a rendere ben riconoscibile questo suo 
nuovo poemetto inserendovi distici e passi interi del- 
l' Istoria, Quella forse era una maniera come un'altra 
di firmare la sua opera. Ohi percorre la decima delle 
lasse déìV Anticristo^ rimane sorpreso quando improvvi- 
samente il corso uguale e monotono degli alessandrini 
viene interrotto da tre novenari: 

53 Poi Anticristo anango farà lo terga ensegna 
elo farà fiorir le arbor della selva 



e legno seco farà fiorir 

e faralo fiorir in ma 

mai no farà de pera pa 
e dirà a Pagani : Questa è grande insegna. 
La quarta insegna poi farà in cotal tempesta. 

Quei tre novenari appartengono al piti antico poe- 
metto deìV Anticristo, quello che è inserito neìV Istoria: 

1320 fogo de celo farà vegnir 
e legno seco farà fiorir 
e faralo fiorir en man 
mai no fera de pera pan. 

I tre novenari enumerano .i miracoli e le benemerenze 
paterne deìV Anticristo verso il genere umano; egli farà 
fiorire le piante inaridite, proprio in ma, cioè in mano 
agli uomini increduli, e non darà mai ad^ essi pietra in 
luogo di pane. « Quis est ex vobis — dice il Vangelo 
di S. Matteo (VII, 9) — quem si pieterit fllius suus 
panem nunquid lapidem porriget ei ? » 



78 



Una simile inserzione di novenari entro il corso degli 
alessandrini si ripete un'altra volta alla fine del poema : 

[Co]8Ì à finir lo piato 
del iusto e '1 pecatore. 



quello ke sera da man seuestra 
ke no fo digno de la destra, ecc. 

Questi novenari — ben s' intende — fanno parte an- 
ch'essi dell' Istoria di Uguccione da Lodi e sono pro- 
prio quei medesimi che Pietro da Barsegapé, non so 
bene per quale ispirazione, ha voluto anch'egli inserire 
nel suo Sermone (1). 



(1) Per il testo di Pietro da Barsegapé, ofr. E. Keller, op. 
cit., p. 70 e segg. 

Quanto ai versi comuni ai due poemi, cfr. E. G. Parodi, I versi 
comuni a Pietro da Barsegapé e a Ugueeione da Lodi nella Rassegna 
bibliografica della letter. Ital. voi. XI (1903), p. 116-124. Con la con- 
sueta finezza il Parodi vuol provare che 1 versi comuni ai due poe- 
metti non sono altro che interpolazioni inserite arbitrariamente dal 
copista del codice Braidense entro il Sermone di Pietro d^ Barsegapé. 
Per restituire a quest'opera il suo aspetto originario, bisognerebbe 
eliminarli tutti quanti. Ma la scoperta del codice dell'Escoriai viene 
a complicare le cose, poiché — come risulta dallo specchio — i medesimi 
versi, che sarebbero stati interpolati nel Sermone, si trovano inseriti 
— e non pare per via di interpolazione, ma proprio per via di organico 
sviluppo — entro V Anticristo, e d'altra parte V Anticristo comprende 
versi e distici che non si leggono ueW Istoria, ma si ritrovano poi ri- 
petuti nel Sermone. Il copista Braidense sarebbe dunque responsabile 
d'un doppio ordine di interpolazioni; interpolazioni desunte dall' /scoria 
di Uguccione e interpolazioni desunte àskW Anticristo . 

Siccome questi versi sono tra i piii brutti che Uguccione abbia mai 
scritto, non saprei spiegare la loro fortuna fuori dell'ambito del poe- 
metto che li conteneva originariamente, altro che ammettendo che essi 
racchiudessero qualche formula ascetica di uno speciale valore o una 
dottrina teologica d' una particolare sfumatura che ora non saprei 
definire né precisare. 



Eccone il preciso riscontro 



Antieristo 


Istoria 


Sermone di Pietro 


di Uguccione 


di Uguccione 


da Barsegapé 


. 427 


1769 


2278 


428 


1770 


2279 


(428) 


— 


— 


429 


1735 


— 


430 


1736 




431 


1737 


— 


432 


1738 


— 


433 


1739 


2220 


434 


1740 


2222 


435 


1741 


2223 


436 


1742 


— 


437 


1743 


2234 


438 


1744 


2235 


439 


1761 


2268 


440 


1762 


2269 


441 


, — 


2270 


442 


— 


2271 


443 


1841 


2429 


444 


1843 


— 


445 


— 


2411 



La fonte del nuovo poema è sempre V Epistola ad 
Gerbergam Eeginam che aveva fornito il materiale al 
breve poemetto frammentario inserito nelP Istoria, Uguc- 
cione da Lodi, che allora in un istante di scoraggia- 
mento aveva chiuso quel libro, passato quel turbamento 
improvviso lo riaperse, rilesse quelle pagine e ne riprese 



80 



il sottile lavoro di adattamento nei suoi versi. L'Anti- 
cristo, egli dice, in Babilonia sarà (18-19): 

concepto e generato 
dMncesto, de aulterio de strupu e de peccato. 

Sono le parole medesime del monaco Assone (1): 
Nascetur ex patris et matris eopulatione ; sed tamen totus 
in peccato concipietur , in peccato generabitur, in peccato 
nascetur. Egli compirà « cinque insegne » miracolose, 
che sono le stesse enumerate neWUpistola ad Oerbergam 
e nel breve episodio dell' Istoria che ne deriva. Per 
di più (v. 67): 

elo vera a li morti su li farà levare. 

Faciet mortuos in cospectu hominum resuscitar i, — « In 
tempio Dei — prosegue Assone — sedeat ostendens se 
tramquam sit Deus et.... dicens Judeis : Ego sum Ohri- 
stus vobis repromissus ! ». 

I tre alessandrini di Uguccione da Lodi sono meglio 
una versione letterale che un rimaneggiamento di que- 
sto passo: 

33 En la casa de Deu starà cum' imperatre; 
dirà lo fel : ce Audite, gente, e ascoltate 
k'en sun Jesù Cristo ke tant'ave 'spetate. 

Dal monaco Assone sono desunte le date, sono tolti 
i varii nomi e i diversi particolari della leggenda. Haec 
autem tam terribilis et tremenda tribulatio tribus annis 
manebit et dimidio, dice V Epistola a Gerberga j e Uguc- 
cione : 

345 e per tri anni e me§o farà cotal virtù. 



(1) E. Sackur, p. 106. 



81 



Dopo la morte dell' Anticristo, XL dies Bominus con- 
cedei, postea vero quantum temporis spatium nullus est 
qui sciai, sed in disposinone Dei manei. 
Ecco il testo di Uguccione: 

Quaranta di lo mondo ancora à da brastar; 
mo quanto sera pini nul omo sa acertar, 
mai sol domino Deu.... (402-404). 

L' Epistola di Assone da Montier-en-Dé ha dunque 
fornito ad Uguccione da Lodi tutti gli elementi essen- 
ziali della leggenda; ma bisogna pure avvertire che 
essa non gli ha fornito nient'altro che questi. Dt^WEpi- 
siola derivano i particolari della nascita e della fine 
dell'Anticristo; ma il lungo e drammatico racconto in- 
termedio, cioè l'esposizione dei fatti che conducono dal- 
l'uno all'altro termine, dalla nascita alla morte, è cosa 
del tutto nuova ed originale. Il poeta qui si libera dal 
ricordo delle sue letture e procede per la sua via spe- 
dito e leggero senz'altri impacci e senza altre preoccu- 
pazioni. E a mano a mano che si annebbiano e scom- 
paiono le immagini desunte dai libri, entro lo specchio 
di questo poemetto affiorano cento altre immagini, nelle 
quali con chiarezza sempre maggiore e con piti sicura 
precisione possiamo ravvisare figure e spettacoli della 
storia lombarda contemporanea. 

Il primo atto dell'Anticristo nella sua discesa sulla 
terra sarà — secondo il racconto di Uguccione — l'invio 
di un'ambasceria all'assemblea cristiana riunita in Eoma 
dal Papa. Il poeta si sofferma a descrivere le tende, i 
drappi e i padiglioni dove la turba immensa sarà accam- 
pata. A un tratto s'udrà uno squillo di trombe; e il 
parlamento avrà inizio. 



82 



113 e sonarà le tube — e cornarà li come ; 

facto sera silencio — on'omo avrà tremore. 

In mezzo a quel tragico silenzio ora risuona la voce 
dell'ambasciatore dell'Anticristo, che annuncia la pau- 
rosa novella: 

119 Audite, bona gente andite e ascoltate! 
E forse intender! li diti e le anbassate 
le quali d'oltremar si ve son mandate. 
Pur semo nui e' 1 tempo ke tant'è anunciato 

123 ke lo re Anticristo in terra de regnare. 

Alla prima notizia, altre notizie si aggiungono sem- 
pre piti spaventose e piti tragiche. 

131 Altre novelle magne e novelle forfore 

si ve dirò k' a vui manda '1 grande Segnor. 

All'annuncio di queste novelle^ all'enumerazione dei 
portenti e delle minaccie, ognuno trema e impallidisce 
ed è invaso da uno sgomento infinito. Tutti tacciono; 
soltanto il Papa ha il coraggio di levare la voce dopo 
che è cessato il terribile bando dell'Anticristo: 

142 Audendo quisti diti se leva '1 Papa Santo 
entro questo 'Rengo si parlarà alquanto. 

Quell'assemblea ha dunque un carattere ben definito 
ed ha anche il suo nome tradizionale: è VArrengo, 

h^arrengo è un' istituzione lombarda e schiettamente 
comunale. Alcuni vogliono che essa tragga il suo nome 
dal ring barbarico dei Longobardi (1); altri invece pre- 



(1) Cfr. W. Bruckner, Gharakteristik der german. Elemente im 
Italienischen, 1899, p. 10; G. Bertoni, L'Elemento germanico della lin- 
gua italiana, Qquox a,, 1914, p. 76 [germ. hring, got. hriugs]. 



83 



ferirebbero, per un'istituzione così romanamente antifeu- 
dale e democratica com'era quella, un etimo latino e 
vorrebbero ricondurre arrench ad arenchum cioè al- 
l'arena romana, le cui gigantesche moli di pietra spic- 
cavano nelle città medievali tra la miseria delle case 
di legno e di mattone (1). In ogni modo Varrengo è un 
istituto storico particolare delle città lombarde che ebbe 
il suo fiore nel periodo glorioso delle lotte comunali, 
cioè nella seconda metà del sec. XII. L' introduzione 
dell'arrendo entro la leggenda dell'Anticristo è un fatto 
che non è privo di significato, e ci richiama a tempi e 
a costumi notevolmente arcaici. Uguccione da Lodi non 
soltanto ci descrive Varrengo (2), ma ci riferisce i di- 
scorsi che ivi si tenevano e si compiace di atteggiarli 
secondo il formulario consueto nelle arrengherie popo- 
lari. « Audite, bona gente, audite ed ascoltate » è l'inizio 
costante d'ogni sua diceria, come doveva esserlo ogni 
discorso tenuto in mezzo alla folla ondeggiante nel tu- 
multo cittadino, che bisognava dominare colla voce e 
col gesto per imporle imperiosamente il silenzio: 

35 Dirà lo fel : — Audite gente e ascoltate 
320 Dirà Enoc : — Audite ! 

e gli ambasciatori (119): 

àudite, bona gente, audite e ascoltate! 



(1) Il luogo di riunione del i)opolo era il Gircus, cioè l'anfiteatro 
romano, che perciò in alcune città ebbe il nome di Parlaselo (= par- 
lamento); cfr. G. Mkngozzi, La città italiana nell'alto medioevo, Roma, 
1914, p. 1914, p. 258 e sgg.; C. Manaresi, Gli atti del Comune di Mi- 
lano fino all'anno 1216, Milano 1919, p. LXXIII. 

(2) Due volte: nei vv. 112-111 e nei vv. 141-144. 



84 

e il re d'Italia (170); 



se 



leva '1 re d' Italia ke ven bandir la gente : 
Segnor baroni audite, per Deu omnipotente ! 



Lo spiccato rilievo che ha VArrengo in questo poe- 
metto sull'Anticristo, ci richiama ad alcune scene di un 
altro poemetto lombardo di questo tempo, ai Gesta Fri- 
aerici in Italia (1). Anche qui ritroviamo le medesime 
formule di inizio del discorso, i medesimi accorgimenti 
stilistici delle dicerie popolari lombarde. La novella del- 
l'ambasciatore dell'Anticristo somiglia al discorso del- 
l'ambasciatore di Roma a Federico sul monte Gioia e 
alla risposta di Federico (v. 615 e ^gg*)} Varrengo, che 
ne segue neW Anticristo^ assomiglia sìVarrengo di Brescia 
nei Gesta (1245 e sgg.). 

Alcuni altri episodi del poemetto di Uguccione da 
Lodi rievocano uno dei motivi piii caratteristici del ce- 
lebre dramma dei tempi del Barbarossa intitolato il Ludus 
paschalis de Antechristo, composto nell'anno 1161 (2). 

Appena l'Anticristo si affaccia nel mondo, tutti gli 
uomini sono invasi dal terrore. Il Ludus ci rappresenta 
i re della terra mentre sfilano uno dopo l'altro davanti 
al trono del trionfante Anticristo e ai piedi di costui 



(1) Cfr. E. Monaci,. Gesta di Federico I in Italia (Fonti per la Sto- 
ria d'Italia, voi. I), Roma, 1887. 

(2) Cfr. W. Meyeu, Der Ludus de Antichristo und Bemerkiin- 
gen ueber die latein. Bythmen des 12. Jahrh. in Sitzungsberiehte de?' 
K. Bayr. Akademie der Wissenschaflen di Monaco di Baviera, Ci. Sto- 
rica, 1882, p. 1-192; e poi nelle sue Gesammelte Abhandhtngen zur 
Mittellateinisehen Bythmik, voi. I, 1905, p. 159. 



85 

depongono ciascuno la propria corona. Ecco prima di 
tutti il re di Grecia. Egli canta: 

Tibi profìteor decus imperiale j 

quo tibi serviam, jus postulo regale. 

Et flexo genu offert ei coronam, Tunc Antichristus de- 
pingens primam litteram nominis suis regi et omnibus 
suis in fronte, et coronam ei in capite reponens, cantant : 

Vive per gratiam et suscipe honorem 

dum me lecònosceris cunctorum creatorem (1). 

E dopo il re di Grecia, altrettanto fa il re di Francia 
e poi anche il re di Gerusalemme. Soltanto il re dei 
Germani si sottrae al comune destino. Anche il poema 
di TJguccione da Lodi espone i fatti secondo una rap- 
presentazione parimente dolorosa e pessimistica. Il solo 
re che tra tutti abbia osato di raccogliere la sfida degli 
ambasciatori delP Anticristo neìVarrengo di Eoma, il re 
d' Italia, ben presto deve accorgersi che ogni lotta è 
inutile, ogni resistenza è vana contro la violenza dei 
destino. E allora egli si presenta davanti al trono del- 
PAnticristo e al cospetto di tutti i suoi baroni depone 
la corona dicendo: 

Oimai renuntio al Regno. Tu ei lo Jle Romano ! 

Ma l'Anticristo ha qui lo stesso atteggiamento ca- 
valleresco, che gii attribuisce il Ludus Paschalis di Te- 
gernsee di fronte al re di Grecia, al re di Francia e al 
re di Gerusalemme. E le sue parole sono così insinuanti 



(1) LudvMf V. 215 e sgg. 



86 



clie il poeta non sa trattenere un'esclamazione di rab- 
bia : « oi, li soi dulci diti kom'ell'è suave ! » (284). L'An- 
ticristo rialza il re d' Italia prostrato e lo cbiama af- 
fettuosamente: Bel sire. Poi lo rassicura così: 

298 A ti, sire Romano, no dirò nulo male ; 
oimai abii licencia de far 90 ke te place. 

Ma il re d' Italia, umiliato da questa indulgenza del 
nemico piti ancora che dalla sua sconfìtta, col cuore 
spezzato dalla sua vergogna, se ne viene al santo se- 
polcro, si immerge in una profonda meditazione, e poi 
bacia la terra, depone lo scettro e il gonfalone, si to- 
glie la corona. 

304 E basarà la terra e segnerassi in «erose . 
E'iora criarà si forte ad alta vose 
li scloparà la sangue per li ochi de la fronte. 

Il sangue gli schizzerà attraverso gli occhi e per 
mezzo la fronte. Questa è la scena piti vigorosa del 
poema 5 ed ha — nella semplicità della sua sobria linea 
arcaica — una potenza che pochi testi della leggenda 
hanno mai raggiunto né prima né poi. Son versi che 
non sfigurerebbero nella Chanson de Roland. 

Si noti che il re d' Italia non esce da questo con- 
flitto spezzato dalla violenza e dalla crudeltà del ne- 
mico 5 anzi il nemico ha verso di lui un atteggiamento 
evidentemente generoso e liberale. Egli è vinto perchè 
improvvisamente ha sentito sopra sé stesso il peso d'un 
destino avverso j e la sua sconfitta è determinata da 
questo disfacimento delle sue forze interiori, da questo 
infiacchirsi della sua coscienza, e non già dalle forze 



87 

del mondo esterno. È un fatto che merita di essere ri- 
levato non soltanto perchè denota una delicatezza di 
procedimenti psicologici che non è comune nella lette- 
ratura medievale, ma anche perchè richiama a circo- 
stanze storiche che caratterizzano un momento ben cir- 
coscritto nella lotta gigantesca e secolare tra l'Oriente 
e l'Occidente. L' idea che la lotta contro gli infedeli 
non fosse ormai più destinata a una fine vittoriosa si 
insinuò nella coscienza europea quando il maggiore dei 
sovrSni d'Oriente, il Saladino, incominciò a diffondere 
nel mondo la fama della sua saggezza e del suo splen- 
dore. Nell'atteggiamento così remissivo e così indul- 
gente dell'Anticristo verso il re d' Italia vinto e pro- 
strato ai suoi piedi, in questo poemetto di Uguccione 
da Lodi forse è un riflesso di quella generosità verso i 
vinti che la poesia e la novella del sec. XIII a gara 
esaltarono nel Saladino (1). 

La buona fortuna degli infedeli coincide con una 
serie di sventure dei cristiani. Alla notizia che il Sala- 
dino aveva occupato Gerusalemme, nel maggio del 1189, 
Federico Barbarossa, raccolto un magnifico esercito, 
mosse alla volta dell'Oriente e dopo una lunga vicenda 
di avventure, dopo avere superato infinite difficoltà, 
finalmente era prossimo a raggiungere la meta, quando 
improvvisamente fu arrestato dalla volontà terribile del 
Destino, la quale schianta ogni volontà umana che le 
si opponga. Mentre placidamente prendeva un bagno 
nel fiume Selef il 10 di giugno 1190 il Barbarossa ve- 



li) Cfr. G. Paris, La leggenda di Saladino, Firenze, 1896, p. 25 
« 8gg. 



88 



niva travolto da un improvviso gorgo delle acque ; e scom- 
pariva. 

In questo fatto, che gettò un fremito di angoscia 
nell'anima dei Fedeli, i contemporanei ravvisarono una 
rivelazione dell' ineluttabile decisione del Destino. Bi- 
sogna leggere le pagine dei cronisti contemporanei e i 
versi dei poemi ispirati a questo tragico evento, per 
rendersi conto della commozione e dello sgomento del- 
l' Europa (1). La volontà di vincere, che si tempra e si 
affina di fronte alla forza nemica e alla violenza degli 
eserciti^ si inflette e si schianta di fronte al mistero di 
quei fatti paurosi entro i quali pare s' avverta il sordo 
brontolio della minaccia divina. 

Il disegno del Barbarossa fu ripreso da Innocenzo III. 
Il ricupero della terra Santa fu la meta di tutta la po- 
litica e di tutta la vita di quel grande pontefice; e 
parve un trionfo la riunione del quarto concilio Late- 
ranense, al quale tutto il mondo intervenne per predi- 
sporre le forze per la lotta gigantesca. La preparazione 
del concilio durò mesi e mesi, anzi anni ed anni (aprile 
1213-novembre 1215). Nell'autunno del 1215 una folla 
di prelati, di feudatari, di sovrani si accalcava nelle 
strade di Roma : oltre gli ambasciatori imperiali erano 
accorsi ambasciatori del re di Francia, del re di Inghil- 
terra, del re di Gerusalemme, del re di Aragona, del 
re di Ungheria, dell' imperatore di Costantinopoli, e 
v'erano piii di ottocento abbati e di quattrocento ve- 



(1) Cfr. Iacopo d'Acqui, Chroniea de imaginibus mundi, neiM. G. JET. 
ed. minor cur. O. Holder-Egger, Hannover, 1892, p. 97: De maximo 
dolore de morte nostri imperatorie Frederici Barbarossa. 



89 



scovi. Lo spettacolo di questa folla di prelati e di so- 
vrani era grandioso e solenne. 

Ifon mai s'era vista un'assemblea così grande, né mai 
il proposito di riconquistare i luoghi santi s'era tradotto 
in uni disegno così preciso e così chiaro. Innocenzo III 
si diede a percorrere V Italia per affrettare i prepara- 
tivi, per riunire i soldati, per infondere nel popolo il 
soffio possente della sua volontà j ma erano passati po- 
chi mesi ed ecco, improvvisamente egli moriva a Pe- 
rugia (16 luglio 1216) nel bel mezzo della sua impresa, 
nel fiore della vita.' Egli non aveva che 56 anni. Il 
tragico destino del Barbarossa si ripeteva ancora una 
volta; e ancora una volta la cieca potenza del Mistero 
si levava a soverchiare la volontà degli uomini. 

Tra il clangore delle trombe apocalittiche, in mezzo 
allo schianto di quelle magnanime vite, l'annuncio della 
fine dei secoli non doveva apparire più un arido mo- 
tivo leggendario. È la tragedia stessa del Barbarossa 
e di Innocenzo che grida i versi di Uguccione da 
Lodi (1): 

172 Signor Baroni, audite, per Dio Onnipotente! 
Turbate son le ete, finiti son li tenpe; 
e mo la fin del mondo noi l'avemo in presente..,. 



(1) L'impressione, che la duplice scomparsa del Barbarossa e di 
Innocenzo III esercitò sui contemporanei, si deve a poco a poco essere 
attenuata col tempo; e fu cancellata nel 1228 quando Federico II, eia 
pure in modo così fuggevole, cinse in Gerusalemme la corona regia. 

Il Poemetto buìV Avvento dell' AnticHsto è dun(iue in ogni modo an- 
teriore a questo avvenimento (1228). 



Gap. Y. 

Riflessi di dottrine patariniche 
nel poema delTAnticristo. 



Secondo il racconto del poema dell'Anticristo, uno 
dei prodigi più paurosi che arrestarono il folco (Peser- 
cito) del re d'Italia fu l'apparizione del Drago An- 
tico. È un fatto così spaventoso che il rimatore ap- 
pena osa riferirlo « si grande n' a' paura » : 

237 Uno Dracon Antico ke sta en fiamma oscura 
zoè Lucifér maligna creatura 
a cui tuti i demunii obedisse e adora 
.... vignirà fora — com' dise la scritnra — 
e '1 meneràno nebla sera de tal natura, 
ke '1 s'avià a oscurar el sole e la luna, 
e ancor tute le stelle tremava de paura. 
La ter^a part del mond ca9erà en vai oscura. 
Qualó sera la yent tuta en tal tremor 

246 ke fin da lo principio lo tal no fui ancor. 

L' Epistola ad Qerhergam, che Uguccione di solito 
traduce o parafrasa, non fa parola di tali prodigi e non 
nomina neppure il Drago antico. Ma non è a credersi che 
quel racconto sia un' invenzione del rimatore lombardo. 
La rappresentazione del demonio come un Drago era 
uno dei miti particolari alla dottrina dei Patarini ; 
« credunt, dice un antico processo, quod omnia visibilia 



92 



sunt creata per Draconem Magnum qui pugnant cum 
Deo et est fortior in mundo isto » (1). L' identificazione 
del drago apocalittico con Satana era anzi uno dei fon- 
damenti della fede dei Catari : 

Isti sunt errores haeretìcorum catharorum 
Item dicunt quod Satanas, qui dici tur Drago, ascondit 
in coelum cum sequacibus suis voleiis penero sedem suam ab 
aquilone et esse similis altissimo. Et Michael archangelus cum 
Angelis suis restitit ei et commisit belluni cum eo et expulit 
eum cum suis sequacibus de coelo. Et ipse Drago cum sua 
cauda traxit secum tertiam partem stellarum sive bono- 
rum angelorum.,.. (2). 

Yì è tra questa esposizione della dottrina patarinica 
e il testo del Poema sulV Anticristo un' perfetto paralle- 
lismo non soltanto nello svolgimento delle idee, ma per- 
sino nei particolari piti minuti. 

È vero che tanto il Poema di Uguccione quanto la 
Professione di fede patarinica risalgono alVApocalissi 
di S. Giovanni (XII, 3-4 ; 9). Ma alla paurosa profezia 
apocalittica del dragone « babens capita septem et 
cornua decem » i teologi ecclesiastici si guardano bene 
dall' attribuire quel profondo simbolo dottrinale cbe in 
essa invece ricercarono gli scrittori e i pensatori ete- 
rodossi. 



(1; I. DoELLiNGER, Beitruege sur Sektengeschichte des Mittelalterg, 
Monaco, 1890, voi. II, p. 263. 

La connessione del Drago eoll'Anticristo era pure una dottrina ere- 
tica : « item dicunt quod Lucifer in Antichristum fundetur et ibi aget 
poenitentiam secimdum illud : Lucifer in Antichristo totaliter regnahii »; 
Cfr. I. DOELLINGER, op. cit., II, 283. 

(2) I. DoELLiNGER, BeUvacge, II, 321. 



93 



JSfella dottrina degli eretici il racconto della Genesi e 
la fuggevole identificazione di Satana col serpente, con- 
tenuta n^W A]^ocalis8Ì (XII, 9), aveva una particolare im- 
portanza e un significato che gli scrittori cristiani sono 
ben lontani dal riconoscere. Gli angeli sono creazione 
anteriore alla terra e agli uomini, ed è anteriore alla 
creazione la storia della superbia e della condanna di 
Satana. Quando Iddio traboccò giti dal celo il superbo, 
la terra non ancora esisteva j sicché bisogna credere che 
alla composizione del mondo abbia partecipato il sofi&o 
creatore dell' Antico Dragone. « Unde ipse propter su- 
perbiam cum omnibus complicibus de coelo eiectus est 
et descendit in illam confusam materiam quatuor ele- 
mentorum non distinctorum et ita peccatum a Lucifero, 
quia prius bonus erat, initium habuisse dicunt » (1). 

Ecco perchè la vita è ribellione e l'esistenza stessa 
è un groviglio di inestricabili mali. Questa dottrina è 
riferita molto diffusamente anche nel Poema di Uguc- 
cione (v. 322-336), nella rivelazione che il profeta Enoc 
fa alla santa cristentade. Vedendo la superbia di Lu- 
cifér. Iddio, giusta podestate, « getaral 911 en terra, e 
su no Va, a levare ». 

Ed anche nel poema delV Anticristo è implicita quella 
stessa dottrina patarinica della predestinazione, la quale 
imprime la sua impronta in alcuni episodi del Libro 
uguccioniano nelle lasse di alessandrini. Il re d' Italia, 
che pure ha riunito intorno a sé un folco innumerevole 
(11000 confaloni e 300.000 armati), dopo aver iniziata 
V impresa contro l'Anticristo col maggiore entusiasmo 



(1) I. DoELLiNGEH, Beitraege, II, 273. 



^)4 



e coi più tenaci propositi, improvvisamente vi rinuncia. 
Egli si accorge di essere mal siderato; egli pensa clie 
la vittoria non è affidata allo sforzo delle armi, ma è 
distribuita misteriosamente secondo un imprescrutabile 
disegno del Destino. E al destino è inutile fare vio- 
lenza. 

266 Vedrà lo re d' Italia — ke non pò far barn ago 
de 9ent enbataja' — ke no è destinato 
e ke de la sua vita — sera mal siderato. 

Ma V impronta Patarinica si rivela con precisione 
ancor più netta in un altro episodio del Poema. Siamo 
ormai prossimi allo scioglimento del dramma: per pro- 
teggere il mondo dalla violenza delP Anticristo Iddio 
decide di inviare sulla terra i suoi ultimi difensori, i 
suoi due Paladini, Enoch ed Elia. L'avvento di Enoch 
e di Elia costituisce la scena finale della leggenda del- 
l'Anticristo in tutti i testi biblici e medievali, a comin- 
ciare dalla Profezia di Daniele nella Bibbia; e ai due 
difensori sono dedicati molti carmi latini e moltissime 
raffigurazioni plastiche nelle cattedrali romaniche (1). 
Quale fosse il significato simbolico della loro presenza 
è stato sottilmente indagato dagli scrittori ascetici, cosi 
da quelli appartenenti all'eresia, come da quelli che 
svolgono il loro pensiero nell'ambito dell'ortodossia. 
Generalmente nel sec. XIII gli scrittori cattolici rav- 
visano nella loro duplice difesa della Fede l'opera pa- 



(1) Un carme latino del IX secolo De Enoch et Elia è inserito nella 
raccolta del Duemmler, Bhithmorum Eeelesiasticot^um Aevi Carolini Spe- 
cimen (M. G. H.), Berlino, 1881, II, 253. 



95 



rallela dei due ordini dei Domenicani e dei Francescani 
nella guerra della Chiesa contro V Eresia. È incerto il 
grado della loro divinità: la profezia della Sibilla Ti- 
burtina li chiama semplicemente « duo clarissimi viri », 
la profezia di Metodio « duo famuli Dei », V Epistola a 
Gerberga del Monaco Assone « duo magni prophetae» (1): 

Ante eius exci-tum duo magni prophetae mitteiitur iu mun- 
dum, Enoch scilicet et Elias.... 

Per Uguccione da Lodi Enoch ed Elia, che simbo- 
leggiano secondo gli scrittori della chiesa romana i due 
ordini di monaci inviati da Dio a sgominare gli Ere- 
tici, non sono più i due valentuomini della Sibilla, né 
i due servi del Monaco Pietro, e neanche i due profeti 
del monaco Assone. Enoch ed Elia sono due Patarini: 

391 Vera a Jerusalem Michel in la citàe 
la o li doi nostri Patarin §aseràe: 
Enoch ed Elia per nome li à a clamare. 

I due difensori di Dio sono dunque due Patarini? 

Per intendere il valore di queste parole e del pen- 
siero del Poema bisogna che ci riportiamo alla storia 
delle sette patariniche del sec. XII. 

Dell'eresia dei Patarini la Lombardia era stata la 
patria e il rifugio. Milano, che aveva dato il nome alla 
setta, è dipinta dagli scrittori della Chiesa come il covo 
degli eresiarchi, e la, fovea Jiaeretieorum : « erat, dice un 
cronista, omnium haereticorurum.... refugium et recep- 



(1) Cfr. W. BoussET, Der Antiehrist, Gottinga, 1895, p. 134 e sgg.; 
E. Saokur, Sihylliniseht TexU und Forschungen, ilalle, 1898, p. 95- 
111-186. 



96 



taculum ». « Erroris sentina » la chiama nelle sue Upi- 
stolae Innocenzo III (1). Nel poema franco-veneto del- 
l' A?i^ec^Ws]f il diavolo si vanta di aver sparso tra i 
cittadini lombardi una tale eretica perversione, che tutti, 
persino i monaci e i preti, hanno rinnegato Iddio. 

.... tant ai mis de resie 
et de sètes et pateiie. 

Ribelli alla tirannia dei Vescovi, che si erano fatti 
veri e propri feudatari, e ribelli al giogo del clero prez- 
zolato e venale, i Patarini non ostentano invece alcuna 
ostilità verso la Curia Romana. Anzi essi si atteggiano 
a difensori della chiesa contro le turbolenze del clero 
e le pretese dei Vescovi. E da parte lo^o i Pontefici si 
valgono della Pattarla e se ne fanno uno strumento di 
lotta contro l'arcivescovo Milanese il quale mirava a scio- 
gliersi da ogni soggezione verso la chiesa Romana (2). Nel 
1059 i due legati Pontifici in Milano, Anselmo da Lucca 
e Ildebrando, sono i più ardenti sostenitori della Pateria 
contro le accuse dell'Arcivescovo; nel 1076 il concilio 
di Worms depone Gregorio YII accusandolo di essere 
un larvato paterino e di farsi strumento dell'eresia pa- 
tarenica entro la famiglia della Chiesa Romana (3). Lo 
dicevano Gregorius Patarinus. Fu un grave scandalo 



(1) Hefele, Les Conciles, voi. V, p. 1274. 

(2) Intorno all'atteggiamento spirituale della Chiesa in quest'opera 
di dissoluzione della disciplina feudale, e in qviesto scatenarsi di forze 
nuove e rivoluzionarie, v. le belle e luminose pagine di G. Volpe, 
Eretici e moti ereticali dal XI al XIV secolo, nel Binnovamenlo I (1907) 
p. 639 e sgg. 

(3) Hefele, Les Conciles, voi. VI, p. 521. 



97 

tra i fedeli abituati alla tradizionale disciplina Patto del 
Papa Alessandro II, che consegnò a uno dei capi del- 
l'eresia milanese, il guerriero Erlembardo, reduce dalla 
Terra Santa, il vessillo della Chiesa. « Gloriatur Ar- 
lembardus — dice il cronista Arnolfo (1) — idem ab ipsa 
Roma bellicum S. Petri se accepisse vexillum contra 
omnes sibi adversantes ». 

Appena si diffuse la notizia di questo insigne onore 
fatto al capo dei ribelli eretici, i seguaci delParcive- 
scovo tumultuando cacciarono i patarini dalla città. 
Arialdo, altro capo della setta, fuggì, ma fu arrestato 
a Legnano, condotto nelP isola Bella sul Lago Maggiore 
ed ivi suppliziato con orrendo martirio : gli strapparono 
gli occhi, il naso, la lingua, la mano destra e poi get- 
tarono il cadavere così mutilato nel lago. Ma la leg- 
genda patarina vuole che il corpo del martire, sebbene 
legato a una pesantissima pietra, rimanesse a galla sulle 
acque, divenuto ancor più splendido nel candore della 
morte, Erlembardo accorre a Milano, ricupera la salma 
del suo confratello, riunisce i patarini dispersi e fuggi- 
tivi e prosegue implacabile la sua lotta contro l'arci- 
vescovo e il clero. Ma nel 1075, mentre accorre alla 
testa di un pugno di eretici allo scoppio d'una feroce 
mischia cittadina, egli è all' improvviso ferito a tradi- 
mento j e cade nel mezzo della piazza, con la spada in 
pugno. 

Intorno alla memoria dei due guerrieri Patarini ben 
presto si formò l'aureola di una sacra leggenda. Essi 



(1) Arnulphi Mediolanensis, Etrum sui temporis libri quinque 
8eu Getta Mediolanensium nei M. O. H., Script, voi. Vili, [III, 17]. 



98 

erano caduti per la fede e per la chiesa di Eoma; me- 
ritavano il nome di martiri e di santi. Il cadavere stra- 
ziato di Erlembardo fa tumulato nella chiesa di S. Dio- 
nigi extra Portam Womm^ e nel 1096 il papa Urbano II 
e l'arcivescovo Arnolfo gli eressero un solenne monu- 
mento sul quale erano incisi questi versi (1): 

Hic Herlembardus miles Christi reverendus 
occisus tegitur qui coeli sede potitur. 
iDcestus reprobat, simonias et quia damnat 
liunc Veneiis servi perimunt Simonisque maligni. 

Nel 1099 dalla chiesa di S. Celso fu trasportata nella 
stessa chiesa di S. Dionigi anche la salma dell'altro 
martire milanese — Arialdo — e sulla sua tomba, che sor- 
geva accanto a quella del confratello Erlembardo, fu 
inciso un epitaffio consimile: 

Martyr levita jacet hac Arialdus in urna. 
Truncatus mori tur sed vite dona mere tur. 

Il monaco vallombrosano Andrea da Strumi nel 1075 
scrisse una Vita et Passio sancii Arialdi mediolanensis 
diaconi et martyris. Alla fine del sec. XII un anonimo 
componeva un'altra operetta intitolata Passio duorum 
martyrtim, scilicet Arialdi et Herlemhardi. Nello stesso 
tempo un versificatore milanese rivolgeva ai suoi con- 
cittadini un carme De Arialdo et Rerlembardo invitan- 
doli a venerare per sempre « hos pugiles Christi ». 

Ohe Uguccione da Lodi abbia chiamato i due difen- 



(1) Cfr. C. Pellegrini, Fonti e memorie storiche di S. Arialdo ncl- 
V Archivio storico Lombardo, XXVII, 209; XXVIII, 5; XXIX, 60. 



99 



sori della fede contro TAnticristo i due paterini, dopo 
questi precedenti non può più stupire alcuno. Gli ere- 
tici respingevano sdegnosamente l'etimologia di Fatarmi 
dalla Pattarla degli stracci vendoli, e riconduce vano il 
loro nome al verbo pati, quasi patavino significasse 
martire e vittima della fede. « Patharenos se nominant 
veluti expositi passioni ». Patarini sono gli impavidi 
che sfidano il supplizio « en Pessemple des martyrs qui 
soufrirent torment pour la sainte foy ». Enoch ed Elia 
erano caduti di fronte al nemico come Arialdo ed Er- 
lembardo di fronte alle soldatesche prezzolate delPar- 
civescovo di Milano. E il supplizio di Enoch ricorda lo 
strazio di Arialdo nell' isola Bella del Lago Maggiore : 

[Enoc] in nn momento sarà morto et olciso. 

.... li odi la testa e '1 viso 
e le cosce e le bra9e tuto sera rostio 
e lo cor del corpo fora li sera ensito. 

Così il poema di Uguccione (381-385). « Kasus cum 
labio superno — racconta Arnolfo (III, 20) — est ab- 
scissus; deinde ambo oculi sunt effossi ; postea vero dex- 
tram detruncant manumj postea de sub gutturé linguam 
extrahunt ». 

Enoch ed Elia, i due profeti caduti nelPultima lotta 
della fede, nella suprema battaglia di Cristo contro 
l'Anticristo, ricordano per la loro battagliera fierezza e 
per il loro olocausto, i due patarini Arialdo ed Erlem- 
bardo, quei due patarini milanesi che i due carmi del 
1096 e del 1099 avevano esaltato come Christi pugiles 
e milites Christi. 

Ma se in tempi remoti il ravvicinamento dei due Pro- 



100 



feti Biblici ai due eretici milanesi poteva essere com- 
piuto senza scandalo, ciò non sarebbe stato più lecito 
né tollerato in tempi più recenti, quando la Chiesa, 
abbandonate le prime dubbiezze, ebbe assunto di fronte 
all' Eresia un contegno decisamente e fieramente avverso. 
Le dottrine Patariniche sono condannate con energia 
sempre maggiore, finché nel 1207 Innocenzo III pro- 
nuncia nel concilio di Viterbo le terribili parole, che 
sono V inizio dell'aperta e spietata persecuzione della 
Pateria e di una vera caccia all'uomo. Sancimus ut qui- 
cumque haereticus et maxime Pattarenus fuerit inventus 
protinus capiatur et tradatur saeculari curiae; bona vero 
ipsius omnia puMicentur..,. domus autem in qua haere- 
ticus fuerit receptatus funditus destruatur (1). Nel 1220 
Federico II emanava un editto, in cui i Patarini erano 
dannati con uguale severità: Pater enos utriusque sexus 
perpetua damnamus infamia atque handimus. Nel 1229 
Gregorio IX ribadiva le antiche condanne: 

« Excommunicamus et anathemizamus «x parte Dei oinni- 
potentis, Patria et Filii et Spiritus Sancti omnes haereticos 
Patarinos » (2). 

Ormai patarino, ben lungi dall'avere il senso nobile 
e glorioso che gli attribuisce Uguccione da Lodi, di- 
venta sinonimo di « uomo spregevole» (3)j nella lirica 



(1) Cfr. C. DuPLESSis d' Argentee, Collectio judiciorum de novis 
errorihus, Parigi, 1728, voi. I, p. 57. 

(2) Epistolae sec. XIII e regestis Pontificum Romanorum selectao 
per G. H. Pertz, nei M. G. E., T. I, p. 318. 

(3) Cfr. Archivio Gloliol. voi. XVI, p. 316. 

L' identità dell' Eresia con la Pataria è affermata in modo non equi- 
voco da Innocenzo III : « Servanda in perpetuum lege sancimus ut 



101 



del sec. XIII patarino vuol dire spergiuro, mancatore 
di parola e traditore. 

I^on è possibile che dopo la chiara ed esplicita con- 
danna di Innocenzo III Uguccione da Lodi abbia ado- 
perato quella frase glorificatrice dell'eresia senza avere 
coscienza della sua ribellione alla Chiesa e del sovver- 
timento delle sue leggi più solenni. Ma in realtà Fguc- 
clone non è un ribelle, né ha alcuna intenzione di at- 
teggiarsi ad eretico. Se egli accetta qualche dottrina 
patarinica e di essa si fa interprete nella sua poesia, 
egli non crede per questo di contraddire alla dottrina 
cristiana, né di recare sfregio alla disciplina della Chiesa. 
Pur condannando il clero e biasimando la corruzione e 
la rilassatezza morale dei sacerdoti, egli rispetta il Pon- 
tefice e ne riferisce con venerazione le parole e gli in- 
citamenti. Evidentemente egli scriveva in tempi nei 
quali il divorzio dell' Eresia dalla Chiesa non era an- 
cora avvenuto, o almeno non era ancora così aperto e 
definitivo come divenne sotto il pontificato di Inno- 
cenzo III (1). Enoch ed Elia, che gli scrittori ecclesiastici 
del sec. XIII raffigurarono come i due dioscuri della 
fede, ravvisando S. Domenico nell' uno di essi, e San 



quicumque haereticus, et maxime Patarenus, in eo fuerit inven- 
tus, protinus oapiatur » (22 settembre 1207). 

Li dissero Patarini canes. Un testo giuridico francese addirittura 
ammette che patarino vai quanto truffatore: et peur che sunt il 
da Paterins, et est autant a dire eomme deviserres (Ducange, Glossarium, 
VI, 211). 

(1) Cfr. A. LuCHAiRE, Innoeent III ; la croisade dea Albigeois, Pa- 
ris, 1906, p. 46. « C'est seulement avoo le pontificat [d' Innooent III] 
que paraìt s'ouvrir une phase no u velie dans l'iiistoire de la pour- 
Buite et de la punition des dissidents. Il est le premier Pape qui 



102 



Francesco nelPaltro, hanno invece nel Poema àelVAn- 
ticristo una significazione del tutto opposta; non sono 
già i due sterminatori dell'eresia, ma sono essi stessi 
due eretici, sono due patarini. Inserendo questa glori- 
ficazione della Pateria entro un poema religioso, Uguc- 
cione da Lodi naturalmente era ben lontano dal pen- 
sare elle la Fede e la Pateria, la Chiesa e V Eresia 
fossero istituti contradditori ed antitetici. Egli non lo 
poteva pensare perchè tali non erano nei suoi tempi. 
Soltanto dopo il concilio di Viterbo (1207) l'episodio 
di Enoch e di Elia diventa storicamente assurdo e teo- 
ricamente grottesco. 



ait invoqué fréquemment le bras seculier et imaginé cette chose inouìe, 
line croisade intérieure, la guerre faite à un peuple chrétien parce qu'il 
avait cesse d' étre catliolique. A dater de cette epoque des clauses 
répressives de l'hérésie apparaìtront régulièrement dans la législation 
des souverains et des villes. Sana doute Innocent III n'a pas créé le 
mouveiuent general qui s'est produit de eon temps contre les adversaires 
de la foi ; mais il l'a étendu et precipite. Il a mentre enfin la ferme vo- 
lente de conserver, par tous les moyens, l' integrité du dogme et du 
eulte traditionels ». 



Gap. YI. 



La personalità storica di Uguccione da Lodi 
rimatore cremonese dei sec. XIU. 



L' ispirazione del poema suìV Avvento delV Anticristo 
muove dai fatti storici che sono racchiusi tra Pultinio 
decennio del sec. XII e il primo del sec. XIII. Seb- 
bene la leggenda dell'Anticristo risalga a tempi remo- 
tissimi, essa non fu mai così attuale come in quel mo- 
mento quando il pensiero Patarinico le ebbe restituito 
il primitivo significato, e la meditazione dei mistici ne 
ebbe rivelato la cupa e profonda bellezza. Nel 1196 
Giovacchino da Fiore pubblicava V Expositio super Apo- 
calypsim e con tenace convincimento ivi annunciava 
l' imminente discesa dell'Anticristo. Quando V impera- 
tore Barbarossa, nel pieno splendore della sua gran- 
dezza, scomparve tra i gorghi d'un fiume, in quella 
misteriosa scomparsa parve veramente che si dovesse 
ravvisare la prova di quelle paurose profezie. A tempi 
assai remoti ci riconduce la lingua di quei poemi (1), 



(1) ì^éìV Anticristo invece della forma organica del futuro abbiamo 
quasi costantemente la forma perifrastica. Una volta si ha una forma 
rara di comparativo (forfore, 127), una volta s'iia un genitivo: « entro 
in camino ardor » (in eaminum iynis ardentis)', e non tengo conto dello 
forme fossili di genitivo plurale (le pene infernoro, l'abisso infernoio) 
perchè esse si dovranno all'influenza delle consuetudini ecolcsiastiobo. 



104 



se anche il restauro delle forme primitive sia reso dif- 
ficile dalle patine dialettali successivamente sovrapposte 
dai copisti dei cinque codici (1). Anche il metro del Li- 
hro e deìV Anticristo — la tirata mono rima di versi 
alessandrini — palesa consuetudini arcaiche e un gusto 
poetico addestrato sopra modelli e letture che nuovi 
avviamenti letterari fecero poi cadere in disuso. Oltre 
le opere di Uguccione noi non conosciamo che pochis- 
simi testi i quali presentino quel metro ; la Passione ve- 
ronese, i due poemi intorno a Carlo Martello e a Buovo 
d'Antona e qualche operetta di minor conto (2). Con 
questi dati ci sarà possibile di identificare l'antichissimo 
rimatore? Il solo copista del codice Saibante, unico tra 
tutti, ci ha rivelato il nome di lui : Questo è lo contenga- 
mento de lo Libro de Ugugon da Laodho, E « TJgugon da 



(1) Il copista del codice Saibante-Hainilton èveiieto,è pure veneto 
quello del codice di Siviglia, veronese è quello del codice Marciano 
XIII; è toscano quello del codice Campori; è — come or vedremo — 
umbro quello del codice dell' Escuriale. 

(2) Cfr. L. BiADENE, La Passione e la Bisurrezione, Poemetto Ve- 
ronese del sec. XIII negli Studi di Filai. Bomanza, voi. I (1884), 
p. 215-275. 

Le strofe dell'Anticristo sono 67, di cui l'ultima è di novenari. Le 
prime 66 sono di versi alessandrini raggruppati per mezzo dell' asso- 
nanza. Sarebbe assai interessante, dal punto di vista fonetico e storico, 
lo studio di queste assonanze. Sebbene il numero dei versi delle lasse 
sia assai vario, è degno di nota il fatto che nell'interno di ciascuna 
lassa i versi tendono a raggrupparsi per distici per mezzo della rima. 
Data una lassa assonanzata in ó tonico, i versi si raggruppano prima 
per la rima in óre, poi per quella in t^we, ecc. Insomma il processo di 
dissoluzione della lassa assonanzata è già cominciato. All'assonanza, 
cbe è il tipo musicale arcaico, si sostituisce la rima. Alla lassa si so- 
stituisce la strofa più regolare. 

La lassa è il tipo della poesia detta, la strofa della poesia letta. 



105 

Laodho » spogliato della sua forma lombarda è secondo 
ilTobler (1) il nome che in Toscana suonerebbe; Ug uc- 
cio ne da Lodi. I documenti lodigiani del sec. XII e 
del sec. XIII ricordano molti personaggi di tal nome (2) : 

Hugutionus de Pantiliate (1198). 

Ugonzonus de Vistarino (1198). 

Hugo de Prato Allonis (cioè da Préallone), podestà 
di Lodi nel 1210. 

Hugo da T rexeno o Trixino (1198). 

Ma non vi è alcuna ragione per ravvisare o nell'uno 
o piuttosto nell'altro il rimatore dei cinque poemi. Molto 
pili seducente è V ipotesi messa innanzi dal Torraca (3) 
che egli fosse il console di Lodi Ughenzione Brina, 
di cui fanno frequente ricordo le carte di quel comune 
tra il 1160 e il 1176. Quando Uguccione da Lodi in 



(1) Lodi = Laodho, perchè il lat. au è reso per ao anche in caosa, 
aoro; d intervocalico per dh e Ve finale di Laude è mutato in o è an- 
che in altri casi consimili, come abadho, enfanto ecc. Tobler, Das 
Biich, p. 5. 

(2) Ugutionus de Pantiliate è teste a una vendita di terre il 
22 settembre 1198 (cfr. C. Vignati, Codice Diplomatico Laudense nella 
Bibl. hi8t. Hai. cura et studio Societ. Longobardicae, Milano, 
1879, III, 223). 

Ugonzonus de Vistarino giura di non vendere proprietà ad al- 
cun forestiere, novembre 1198 (C. Vignati, God. Diplom. 155-158). 

Hugo Prealonus podestà, di Lodi nel 1210 (ofr. I. Ficker, Die 
Begeaten des Kaiaerreiche (1198-1275), Innsbruck, 1881, n. 393). 

Ugo da Trixino presente a un atto del 28 novembre 1198 (C. Ma- 
NARE8I, Oli atti del Comune di Milano fino ali* anno 1216, Milano, 
1919, p. 296) e ad altri atti dell'ottobre 1202 (op. cit., 352). Costui ap- 
parteneva a famiglia nobile ed assai cospicua nella storia lombarda di 
quei tempi. 

(3) Cfr. F. ToRRAOA, Studi sulla lirica ital. del Duecento, Bologna, 
1902, p.. 354 e sgg. 



Ì06 



alcune lasse del Libro rievoca la sua giovinezza, si com- 
piace di ricordare la sua vigoria battagliera, la sua spada, 
che gli pareva migliore di quella del conte Eolando, la 
sua fierezza nelle lotte cittadine. Sono particolari che 
ben si confanno con la maschia figura di quel console 
Lodigiano, che si erge in mezzo al tumulto dell'arrengo 
milanese del 1167 come il carducciano Alberto da Gius- 
sano, e mentre il popolo grida sei volte a gran voce 
Sia, iSia! accoglie in nome della sua città la solenne 
Wadia di Milano: 

d in publica concione, populo laudante et confirmante ac sae- 
a pissime clamante sia sia sia sia sia sia, rogaverunt istos 
« popiilus totiis et Consules Mediolani.... et insuper promis- 
d serunt et guadiam dederunt isti Consules Mediolani istis 
ce Ottoni et Uguenzoui consulibus de Laude ». 

Tra tutti i cittadini di Lodi, egli solo, il fiero e ma- 
schio Ughenzione, allora poteva essere chiamato sen- 
z'altro col suo nome semplice e nudo (Uguenzone da 
Lodi) perchè non era possibile ch'egli fosse confuso con 
le altre scialbe figure che si affacciano nelle carte cit- 
tadine, l'altro Uguccione da Pantiliate, o quello Yista- 
rino, da Preallone ecc. La famiglia Brina era una delle 
casate piti cospicue e numerose della città di Lodi (1). 
Ma in quel momento Uguenzione non parlava in nome 
dei Brina, ma in nome dei cittadini tutti ed in cospetto 
dei milanesi che gridavano Sia sia sia!, egli era non 



(1) Nel Codice Diplomatico di Lodi vedo ricordato un Allotto Brina 
(1153), un Alberto (1192), un Ottone Brina (1172), un Uberto (1160) e 
altri ancora. Era casato numeroso e potente. 



107 



più il consorte d'una potente casata, ma il console, il 
rappresentante di Lodi venuto a trattare, a parlare, a 
promettere in nome della città sua. Fosse o non fosse 
dei Brina, in quel momento egli non era altro che il 
console: egli era soltanto Ughenzione da Lodi. 

Il ravvisare in mezzo al tumulto déìVArrengo mila- 
nese e poi pii; tardi nel solenne convegno dei consoli, 
che ratificano i patti della Lega Lombarda (1168), il più 
antico rimatore d' Italia, sarebbe cosa così nuova e così 
bella, che posso ben dire che il rinunciarvi è penoso. 
Ma è rinuncia doverosa. Ughenzione Brina era podestà 
di Lodi già nell'anno 1160 (1), segno ch'egli era nato 



(1) Ecco in ordine cronologico i docum. che ricordano Uguenzono 
Brina : 

1160 — Pagamento al Vescovo di Lodi « in domo jam dicti Episcopi 
in civitate nova de Laude — ; Signa manuum.... Ugenzonis Brine, 
omnium tuno temporis pot. de Laude »; C. Vignati, Cod. Dipi. Laud., 14. 

1167 — 22 maggio ; Factum et Sacramentum inter civit. [Cremona 
Mediolanum Brixia et Pergamum] per soccorrere Lodi — De Laude vero 
affuerunt: Uguenzonus Brina; C. Vignati, Cod. Dipi. Laud. 36; 
C. Vignati, Storia diplomatica della lega lombarda, Milano, 1866, p. 130; 
C. Manaresi, Gli atti del Comune di Milano, Milano, 1919, p. 80. 

1167 — 31 die; Atto di concordia tra Milano e Lodi «in publica 
conclone populo laudante et confirmante ac saepissine clamante « Sia 
Sia Sia Sia Sia» Otto Dulcianus et Uguenzonus Brina consules 
tunc Laude; cfr. C. Vignati, Storia Diplom. della lega lombarda, 
p. 157; U. Manaresi, Gli atti del Comune di Milano, p. 81. 

1168 — 3 maggio: Lex et concordia eivitatum data in civitate Laude: 
... afifuerunt testes de Laude Uguenzonus Brina. Nel Liber jurium 
di Lodi ed. da C. Vignati, Storia Diplom. della lega lombarda, p. 177; 
C. Vignati, Cod. Diplom. Lodigiano, 49; C. Manaresi, Gli atti del Co- 
mune di Milano, p. 96. 

1176 — 21 aprile : Sentenza dei Consoli di Lodi : Ugenzio Brina 
interfuit; C. Vignati, Cod. Dipi. Lod., p. 88. 

1198 — 22 sett.: Vendita di alcune terre; interfuit Ugentionus; 
C. Vignati. Cod. Dipi. Lod., 223. 



108 



al più tardi nel 1130 (1). Al limitare tra il sec. XII 
e 11 XIII egli era dunque piti che settuagenario, e nel 
primo decennio del Duecento doveva essere vecchio de- 
crepito, mentre il rimatore che compose il Libro in 
quegli anni era mirano e velo (521-552), ma ancor 
ferrantOy cioè grigio: 

Enfìn q'en fui gonvencel et enfanto 

fin questo di q'eu son veio e ferranto 

encoutra ti von senpre conbatando. 

Mai eu era si fole quand avoa cento '1 brando, 

k'eu me tegnia meio de lo conte Rolando. 

Mai entro li peccati eu ai demorad tanto, 

qe sovente fladhe n'ai sospirad e pianto. 

Mo è vegnu tal tenpo q'eu son recreto e stanco. 

E poi Ughenzione è un nome davvero equivalente ed 
identico a Ugu9one(2)? Certo i cinque poemi di 
Uguccione sono opere primitive ed arcaiche, ma non 
possono ritenersi così antiche come comporterebbe l' iden- 
tificazione dell'autore col console di Lodi durante la 
Lega Lombarda, Uguenzione Brina. L' Istoria reca tracce 
non dubbie della lettura dei Vers de la mori di Elinando 
(1193-1197) e del poemetto franco-veneto deìV Antecrist 
che non si può far risalire ad antichità piti profonda 



(1) L'età minima per reiezione a podestà era di 30 anni, e in al- 
cuni luoghi di 36; cfr. V. Franchini, Saggio di Hcerche su l'Instituto 
del Podestà nei Comuni Medievali, Bologna, 1912, p. 145. 

(2) O non sarà piuttosto un composto di Hugo foggiato su Hentius 
(Heinz = Enrico) ? O un composto foggiato su Gonzo-Gonzonis? Al- 
tra forma di Ugentio è infatti Ugontio. In ogni modo Hug-L Tic ;-onÌ8 
è da tenere ben distinto da Hug-ENTio;-onls. 

La desinenza -one appartiene al caso obliquo; Ugenzione h rispetto 
a Ugenzio ciò che è compagnone di fronte a compagno, fellone a fello. 



109 



dell' inizio del sec. XIII (1). Ne consegue che tutta la 
serie concatenata delle operette uguccioniane deve col- 
locarsi entro il corso del primo o dei primi decenni del 
Duecento. 

Ugu§on da Laodho: dice il copista del codice Sai- 
bante. Se ben si rifletta, questa stessa designazione ci 
invita a uscire dalle mura di Lodi, perchè nessun cit- 
tadino lodigiano poteva entro la cerchia della sua città 
chiamarsi così. Solo quand'ebbe lasciata la patria, Chre- 
tien de Troyes fu chiamato appunto « de Troyes », e 
Marie de France fu detta di Francia perchè viveva 
fuori delP Ile de France e fuori del continente, nelF In- 
ghilterra dei Plantageneti. 

Il nome del paese d'origine diventa necessario soltanto 
per chi è lontano dalla patria j ma per chi vi conduce la 
vita, è assolutamente inutile. Uguccione da Lodi può ri- 
cercarsi dunque in tutte le città della Lombardia; in tutte, 
fuorché a Lodi. Il codice Saibante raccoglie di prefe- 
renza componimenti cremonesi; accanto al Libro e al- 
l' Istoria ivi sono collocati — ricordiamo — i Proverbia 
sulla natura delle donne e lo Splanamento de li Pro- 
verbi de Salamone « composto per Girardo Pateclo da 
Cremona » (2). Vien fatto di pensare che il copista 



(1) 'UAntecriat ha nel codice 3645 della Biblioteca dell'Arsenale 
di Parigi (e. 24) questa nota finale: « Explieit Liber de Autecrist 
actum est hoc M. ce. Lj die iovis festnm sanoti thomei apostoli super 
carcere Polorum in contrata de Monteculis de Verona ». Ma evidente- 
mente la data (il giorno di S. Tomaso del 1251) appartiene al compi- 
mento della trascrizione, e non alla composizione del libro. Questo 
particolare sarà compiutamente illustrato in un mio prossimo lavoro. 

(2) A. ToBLEE, Das Spruehgedicht dea Girard Pateg [Abhandlungen 
der Preust. Akademie der Wisaensehaften, XXXVII], Berlino, 1886. 



no 



abbia raggranellato il suo tesoro proprio in Cremona 
ed in Cremona abbia raccolto, insieme cogli altri com- 
ponimenti, anche quelli di IJguccione da Lodi. E infatti 
a Cremona fino dal sec. XII esisteva una famiglia « da 
Lodi », la quale durò fino a tempi recenti e ba dato 
ancbe il nome a una vasta e or squallida piazza di 
quell'antica città (1). Nel 1264 il dantesco Buoso da 
Do vara, che piange tra i ghiacci dell' Antenora « l'ar- 
gento dei franceschi » {Inf, XXXII. 115), comperava 
alcune case da Ugolino De Laude di Cremona (2). Ugo- 
lino De Laude apparteneva nel 1277 al Consiglio Ge- 
nerale del comune (3) e nel 1283 esercitava 1' appalto 
delle gabelle del comune (4). Poiché nelle vecchie fa 
miglie i nomi si rii^etono o meglio si- alternano nelle 
successive generazioni, è assai probabile che il nonno (5) 
di quell' Ugolino portasse quel suo stesso nome, fog- 
giato con l'arcaica forma lombarda (Ugugone), che è la 
forma obliqua corrispondente al nominativo « Ugo, Ugu- 
tio ». La famiglia cremonese dei Da Lodi aveva le sue 
case nel Borgo di Porta Pertusio. Ideile lotte che i Pa- 
tarini milanesi ebbero a sostenere contro il Vescovo e 
contro i feudatari, fino dai tempi di Erlembardo, i mag- 
giori aiuti vennero loro dai confratelli Cremonesi. Tutta 



(1) La famiglia cremonese dei marchesi Lodi o da Lodi si spenso 
nel sec. XVIII. Un Albertino da Lodi, giureconsulto e letterato del 
eec. XIV, è ricordato da F. Arisi, Cremona litterata, I, 157. 

(2) L. ASTEGIANO, Codex diplomaticus Cremonae, [Historiae Patriae 
Monumenta, series II, T. XXII], Torino, 1898, voi. I, p. 333 (n. 843). 

(3) L. AsTEGiANO, Cod. diplom. Cremonae, voi. I, p. 360 (n. 952). 

(4) L. ASTBGIANO, Cod. diplom. Cremonae, voi. I, p. 367 (n. 994). 

(5) Un Uyuccione fu podestà di Cremona nel 1198 {C. Vignati, 
Cod. Diplom. Land. 224); ma apparteneva al casato De Boso. 



Ili 



la storia di Cremona nel sec. XI e nel XII si com- 
pendia nelPalterna vicenda della guerra della fazione 
popolare della Pataria contro il clero e contro i signori 
feudali (1). Cremona — ■ scrive il Yolpe (2) — passava 
come quella fra le città d'occidente in cui prima si fos 
sero annidati i catari. Su per il Po, solcato allora 
dalle navi di tutte le città rivierasche, dovevano assai 
merci diverse, oltre il sale di Comacchio e i prodotti 
orientali ricomprati ai Yeneziani, risalire dai paesi della 
costa adriatica ! ». Cremona era un vero e proprio nido 
di patarini. Il borgo di Porta Pertusio, dove sorgevano 
la chiesa di S. Agata edificata nel 1077 e il monastero 
cluniacense di S. Salvatore, era il covo della fazione 
dei Patarini; e nel 1210 si costituì addirittura città 
indipendente con istituzioni comunali e magistrature sue 
proprie. Nel 1256 ivi fu eretto il palazzo comunale 
della « Città nuova » proprio di fronte alla chiesa di San- 
t'Agata, che era il centro del Borgo di Porta Pertusio e 
il focolare della Pataria. Il corso della Cremonella di- 
videva la vecchia città feudale dalla nuova città Pata- 
rina. S' intende bene come Uguccione da Lodi, che 
aveva le sue case nel Borgo Patarino di Porta Pertusio, 
e apparteneva a famiglia di tradizioni patarine, acco- 
gliesse poi nella sua poesia tanti accenni e motivi di dot- 
trina patarinica. Ugolino de Laude, il suo pronipote, nel 
1283 — abbiam visto — era gabelliere del Comune. Un 
prezioso codice che si conserva sotto le volte del Duomo 
di Cremona contiene le Provvisioni della Gabella 



(1) Cfr. L. AsTEOiAKO, Oodex diplomaticus Cremonae, II, 279 e sgg. 

(2) G. Volpe, Eretici e moti ereticali dal XI al XIV setolo, nel Bin- 
novamento, I, 45. 



112 



Magna dal 1295 al 1300 j e da esse risulta che la 
Gabella era consegnata esclusivamente agli affigliati 
all' ordine patarinico degli Umiliati, come quelli che 
davano maggiore affidamento di probità nelP ammini- 
strazione del pubblico danaro (1). Ugolino de Laude 
apparteneva dunque a quell'ordine. 

Altri fatti della poesia Uguccioniana ci richiamano 
alla storia della Fatarla cremonese. Nel libro delVAìi- 
ticristo hanno un rilievo particolare le due figure di 
Enoc e di Elia. Esse tengono un x)osto altrettanto co- 
spicuo anche nella storia dei monumenti piii primitivi 
ed arcaici della vecchia Cremona. 

Ai lati della iscrizione che commemora la fondazione 
del duomo di Cremona (nel 1107) uno .scultore arcaico 
(Wigilelmo?) ha scolpito il maschio profilo dei due pro- 
feti con arte rude ma non priva di robustezza (2) : 

Anno dominice incar | nacionis MCVII indi | 

tione XV. presidente | domino Pascale | in Romana 

Sede I VII Kal. sept. ineep | ta est edificali hec 

ma I jor ecclesia cremonen | sis qne media videt. 

Enoc. Elia. 

Ora la lapide è posta sulla porta della sagristia, 
detta la porta delle messe. 

(1) Zannoni, Gli umiliati, p. 225. 

(2) Si crede che il bassorilievo sia opera dei due tagliapietra Nic- 
colò e Wigilelmp che lavorarono nel duomo di Modena (1106), nel duomo 
di Piacenza (1122), nel duomo di Ferrara (1135) e nella chiesa di S. Zeno 
di Verona (1139); cfr. A. Venturi, Storia dell'arte ital. Ili, 179; L. Aste- 
giano, Codex diplom. Gremonae, voi. II, p. 282. Anche l'iscrizione che 
celebra la fondazione del tempio (1099) presso la porta principale del 
Duomo di Modena è fiancheggiata dalle due figure di Enoch e Elia. 
Vedi la prima tavola à.eW Atlante paleografico del Duomo di Modena 
a cura di G. Bertoni, Modena, 1909. 




Iscrizione del Duomo di Cremona. 
Anno 1107. 



115 



Chi sa quante volte il rimatore si sarà soffermato a 
riguardare quelle due immagini! E allora il nome e la 
figura di quei due martiri Biblici avrà rievocato nella 
sua fantasia il recente ricordo degli altri infiniti martiri 
della sua fede, della Fatarla, che avevano fatto scorrere 
tanto sangue vermiglio entro le strade e le piazze della 
fosca città comunale. In quel secolo !i dissensi religiosi 
e politici non si traducevano soltanto in semplici discus- 
sioni teoriche, ma mettevano capo a lotte selvaggie e 
cruente. La fazione si difendeva con la spada e non 
soltanto con la penna 5 e il nemico doveva essere ster- 
minato, e non convinto. 

Collocata in mezzo al tumulto della lotta comunale 
e alle battaglie della Pataria cremonese, la figura di 
TJguccione da Lodi, quale ci si disegna nelle lasse del 
Libro, ci appare assai piìi coeifente ai suoi tempi e ai 
suoi luoghi. TJguccione si vanta di essere stato sempre 
fin dalla giovinezza un guerriero. Egli imbracciava lo 
scudo, teneva la spada nella destra e in quell'atteggia- 
mento si gloriava d'essere piti fiero e piil valente del 
conte Rolando: 

554 Eli era si fole, qiiand'avea cento '1 brando, 
k'eu me tegnia meio de lo conte Kolando. 

La mano callosa ed il cuore indurito dalla consue- 
tudine della violenza, egli allora disprezzava persino la 
grandezza di Dio: 

508 Enfin k'eii fui vigoros e aidente 
eii tegnia la via d'Oriente. 
Encontra ti fui fer e conbatente, 
no andì ni obedì li toi cornali damente. 



116 



« E contro ti fui fìer combatedor »: egli ci dice al- 
trove (64:6)} « encontra ti fui forte canpion » (661). 
Tutta la vita del mondo e tutta la vita delPanima gli 
pare una dura battaglia j ed egli si vanta di portare 
nelle lotte dello spirito la stessa indomita fierezza che 
egli recava nella vita delle armi. 

1455 Que molto è fiera bataja, 

lo mondo n'è tuto en travaja. 

Il servizio di Dio gli sembra una specie di milizia, 
ed egli si propone di militare sotto quelle bandiere : 
« Oi Deu !... vovav'eu stare al vostro confalone » (670) ! 

Questo spirito guerriero ci spiega come fra tutte le 
altre leggende religiose Uguccione abbia prescelto quella 
dell'Anticristo per intesservi il suo lungo poema. Tutto 
il mondo è un campo di battaglia: tutte le forze della 
creazione si sono scatenate e l'urto sarà terribile e pau- 
roso. Terribile, eppure maestoso nella sua apocalittica 
grandezza. Di fronte alla vastità di quella mischia il 
poeta mistico sente rinascere gli antichi istinti guer- 
rieri, aspira a pieni polmoni l'aria turbinosa, si inebria 
al suono della grandiosa battaglia. E allora il suo verso 
si eleva e acquista l' impeto d'una vivida epopea : 

160 Et ora su, baroni, levate i Gonfaloni ! 

Ferì entro le genti con Deu benedicione ! 

Fagamo la bataja, al9Ìremo i feloni, 

li tajerem le teste a questi enkantatori. 

176 Ora, segnor baroni, le spade taiente 
fa^an tai colpi laudati seamo sempre ! 



117 



Uguccione soldato (1) e campione di Dio, anche ora 
che aveva nascosto sotto la veste la corazza di ferro, 
anche ora che sotto la corazza portava il cilicio, do- 
veva provare un senso di fraterna simpatia verso il pa- 
tarino Herlembardo, che era morto colla spada in pugno 
in mezzo a una piazza (media in platea) di Milano. An- 
che Herlembardo era stato un soldato: « miles, dice 
Landolfo (2), ut natura dabat strenuissimuSy oculis aqui- 
liniSy pectore leonino, animo admirabili,,., suhlimis corde,,,, 
pernoctare doctus oh hostes », S' intende come Uguccione 
abbia osato paragonarlo ad Enoch e ad Elia. 

Ora che è vecchio e ferrante, Uguccione è invaso 
da una infinita stanchezza; « mo è vegnìi lo tempo q'eu 
8on recreto e stanco » (560). Egli chiede d'essere ri- 
chiamato dal campo della sua dura battaglia: 

Mo è vegnu tal tenpo q'eu son recreto e stanco 
e pur con ti, ver Deu, son remagnù a tanto. 
Marce, dolce segnor, no me lassar al canpo ! 
Qi q'eu me sia, pur a ti me comando. 

La guerra gli appare una cosa inumana e crudele, ed 
ora non ha che un pensiero — la pace — , non ha che 
un'aspirazione — la pace — come tutti i veterani. La 



(1) Altro che frate ! E si noti che tutta la famosa e consueta equa- 
zione : « Pietro da Barsegaxjé, Uguccione da Lodi, Fra Giacomino, 
Fra Bonvesin tiitti e quattro frati» è inesatta anche per quel che 
riguarda Pietro da Barsegapé. Egli era un guerriero e nel 1260, per 
la campagna di Montaperti, offriva al Comune di Firenze di recarsi al 
suo servigio con un forte stuolo di cavalli e cavalieri; cfr. F. Torraca, 
Studi sulla lirica ital. del Duecento, p. 857. 

(2) Landulfi Senioris, Chron. Mcdiol. in Muratori, Ji. I. S., 
voi. IV, p. 103. 



118 



pace sarà il premio finale dell'umanità, superato il tur- 
bine delPultima guerra, quando l'Anticristo sarà sgo- 
minato da Cristo {Anticr. 395-401): 

Alo tuto lo mondo en pax e oimai seràe, 
né guerra né bataja nuuca mai no seràe. 
Mort'è l'Anticristo : tuta la terra à pax. 

Con le sue mani incallite sul brando pesante come 
quello del conte Solando, chi sa quante volte Uguccione 
aveva sfogliato i libri francesi che parlavano di mischie 
e di guerra! E quando poi egli incominciò a meditare 
sui libri mistici ed apocalittici — V epistola del monaco 
Assone, V Expositio di Gioacchino da Fiore, il De eon- 
temptu mundi di papa Innocenzo III, i Vers de la mori 
del monaco cistercense Hélinant — di tratto in tratto 
su delle profondità della memoria ritornavano i ricordi 
di quelle letture giovanili. E s'egli poetava, i versi ser- 
bavano la misura e la fattura delle chansons de geste 
francesi e persino il linguaggio gli si colorava di colo- 
rito francese (1). Yi sono néiV Anticristo certe formule 
e certi atteggiamenti epici che ricordano ben da vicino 
quelli stessi delle chansons de geste : 

94 De Franga vegnirà uno grande segnor 
ke del regno d' Italia sera V inperatore, 
qual à a mantinire a gloria et a aonore, 
com' fece Karlomagno, lo justo enperatore. 



(1) Tutti i nomi propri sono accentati sulF ultima, secondo 1' uso 
francese: Satanàs, Enoc, Luci fé r. Frequentissimo è l' uso ài Bello 
per caro; Bel sire {Ant. 285) — Bel messere {Ant. 253) — Bel Sir 
Deo (Ant. 89), 

La mar è femminile (418). 



119 



Oppure : 

206 or savrà l'Antecristo ke '1 nostro Ke cavalca; 
no à a mandar per omini ke li conduca arma -, 
pur con incantaminti farà sua arte magica. 

Mentre il Libro e V Istoria e i due poemetti sulla 
contemplazione della morte rispecchiano le tendenze mi- 
stiche dello spirito di Uguccione, VAnticristo rivela 
piuttosto la traccia della vita guerresca di lui, passata 
in mezzo alle lotte comunali e le mischie tra la parte 
feudale e quella Patarina. 

Eccomi giunto alla fine. Uguccione da Lodi che prima 
di queste pagine, era nella storia della poesia italiana 
una figura senza rilievo e senza significato, da queste 
pagine spero esca ormai illuminata da una luce così 
limpida e cosi chiara, che i lineamenti e il profilo se 
ne ne disegnino ben sicuri e precisi. 

Le stesse incertezze, che ci davano tanto turbamento 
durante la lettura delP Istoria e del Libro, or che ci 
hanno rivelato il segreto delle loro motivazioni logiche 
e spirituali, contribuiscono a darci una ragione più 
esatta e piti compiuta dei procedimenti artistici del- 
l'antico rimatore. Si è che egli non era uno spirito 
semplice. Attraverso le sue incertezze, i suoi tentenna- 
menti, i ricominciamenti di motivi già tralasciati e poi 
ripresi, noi sorprendiamo il travaglio del suo pensiero 
in preda alle seduzioni di diverse e talor antitetiche 
dottrine religiose e di diverse concezioni poetiche. I 
successivi tentativi stilistici e metrici dei primi poe- 
metti nei distici di novenari, del poemetto in quartine 
di endecasillabi, dei due poemi nelle lasse di versi 



120 



alessandrini mostrano che lo spirito del poeta non aveva 
ancora trovato il suo equilibrio definitivo, ed era tut- 
tavia occupato e preoccupato nella ricerca di quello. 

Il Libro e l' Istoria, quali li leggevamo nel codice 
Saibante, non ci dicevano nulla, né alla fantasia né al 
pensiero, percbè erano anelli sciolti e sperduti d'una 
catena spezzata. Eicostituita la serie dei cinque poemi 
nel loro ordine logico, V Istoria, il poemetto sulla Con- 
templazione della morte, V Anticristo, il Libro in versi 
alessandrini, il poemetto Della miseria delVuomo, l'anima 
dell'antichissimo artefice si ricompone in tutta la sua 
complessità e in tutta la sua estensione spirituale. At- 
traverso i cinque poemi noi possiamo seguire il ritmo 
ben misurato di quello svolgimento, e- sorprendere le 
soste e le ascensioni di quella vita. 

I cinque poemi di Uguccione da Lodi ricomposti 
nel loro ordine originario, rischiarati alla luce del pen- 
siero contemporaneo, ricollocati nei loro tempi e nei 
loro luoghi, non sono piti, com'erano dianzi, una sem- 
plice congerie di materiale linguistico, ma diventano 
una cosa organica e viva. Quei cinque poemi attrag- 
gono la nostra attenzione non solo per il pensiero che 
racchiudono e per l'arte arcaica con cui atteggiano il 
pensiero, ma anche per i problemi storici e letterari 
che essi suscitano. La presenza dell'opera di Uguccione 
spiega fatti, cose, avvenimenti che prima erano racchiusi 
nell' incertezza e nell'oscurità. 

Noi conoscevamo la vita culturale della vecchia Ore- 
mona soltanto attraverso qualche frettoloso accenno di 
frate Salimbene da Parma j ora la presenza in Cremona 
d'un gruppo di rimatori assai cospicuo per l'età e per 



121 

il curioso atteggiamento delParte — quali sono Gherardo 
Pateg, Ugo da Persico e l'autore dei Proverbia — si pa- 
lesa un fatto ben naturale e ben cMaro. Le notizie 
che erano frammentarie si integrano; gli episodi si coor- 
dinano; e diventano storia. 



Gap. vii. 

La biblioteca deir« Arzobispo de Tarragona » 
e il codice dell' Escuriale. 



I romanisti sanno già per lunga esperienza come la 
storia dei testi' piìi importanti delle letterature romanze 
sia strettamente collegata con la storia degli studi e 
degli studiosi del Cinquecento. 

Mentre le più insigni figure di quegli antichi ricer- 
catori sono ormai lumeggiate da numerose e da note- 
voli indagini, ancora è rimasto ravvolto nell'ombra il 
profilo d'uno di essi che pur non è dei meno beneme- 
riti per la storia dei nostri studi. Voglio parlare dello 
spagnuolo Antonio Agustin (f 1586) di Saragozza (1). 

Egli venne a Bologna nel 1535 a 18 anni per stu- 
diare all'università ; l'anno dopo passò a Padova, dove 
fu discepolo di Romolo Amaseo, di Andrea Alciato (2) 



(1) Cfr. Fedro SàiNZ de Baranda, Elogio histórico de don Antonio 
Agustin arzobispo de Tarragona leido a la R. Academia de la Hìstoria 
(1830) ed. nel Boletin de la B. Academia de la historia, LXXV (1919), 
p. 77 sgg.; N. Antonio, Bibl. Hispana Nova, Madrid, 1783, voi. I, 
p. 97 Bgg.; C. Graux, Etsai sur les origines du fonds gree de l' Eseurial, 
ipisode de Vhistoire de la renaissance des lettres en Espagne (Bibliothèque 
de l'Eoole des Hautes Etudes, fase. 46;, Paris, 1880, p. 280 e sgg. 

(2) Cfr. D. Bianchi, Vita di Andrea Alciato uel Bollettino della 
società pavese di storia patria, Pavia, 1912, voi. XII, p. 01. 



124 



e di altri illustri maestri; nel 1537 ritornò a Bologna 
e per cinque anni fece parte del collegio Spagnuolo 
(1539-1544). Dimorò poi a Firenze, a Venezia e lunga- 
mente a Koma' (1544-1554) dove ebbe molti e altissimi 
uffici presso la Curia Apostolica. Fu legato pontifìcio 
in Inghilterra (1555) ed in Germania (1558), vescovo 
di Alife e poi di Lérida (1559) arcivescovo di Tarra- 
gona e primate di Spagna (1576-1586). Le gioie e i 
tormenti della sua vita di studioso e di ricercatore di 
libri per le città d' Italia ci sono rivelati dalle numerose 
lettere che egli scriveva ai suoi corrispondenti, ora in 
latino, ora in castigliano ed ora in puro toscano, perchè 
egli dominava le tre lingue con uguale perizia. La let- 
tura del suo epistolario, sventuratamente disperso i)er 
le biblioteche d' Europa (1), è anche oggi assai istrut- 
tiva per la storia delle collezioni librarie del sec. XYI, 
e per la storia della cultura di quel periodo glorioso. 
Sfilano davanti ai nostri occhi nomi e figure ben noti: 
Onofrio Panvinio, Fulvio Orsini, Carlo Gualteruzzi l'edi- 
tore delle dento novelle antike (1525), Pier Vettori, 
Lelio Torelli. Specialmente interessanti, perchè lumeg- 



(1) Curioso il destino di 106 epistole latine dell' Agustin ! Un eru- 
dito le trovò nel sec. XVIII nella bottega d'un pizzicagnolo a Roma 
tra le carte farciminlbus invonvelvis desiinatas. Ora sono nella Biblio- 
teca Capitolare di Toledo. 

Un grosso voi. di Epistolae latinae ed italicae Antonii Augustìni fu 
edito a Parma nel 1804 da Giovanni Andres. D'allora in poi altre 
molte furono aggiunte; cfr. E. Gigas, Lettres inédites de quelqiies sa- 
vants espagnols du XVI' siede, nella Bevile Hispanique, voi. XX (1909), 
p. 429 ; I. P. WiCKERSAM Crawford, Inedited Letters of Fulvio Orsini 
to Antonio Agustin, nelle Puhlications of the ruodern Language Asso- 
ciation of America, XXVIII (1913), 577. 



125 



giano le vicende delle biblioteche italiane, le lettere a 
Diego Hurtado de Mendoza (1503-1575) il grande uma- 
nista, storico e poeta spagnuolo, autore della Guerra de 
Grenada e fors'anche del romanzo picaresco Lazzarillo 
de Tormes, che in Venezia andava raccogliendo uno 
splendido tesoro librario, e le lettere al libraio fiam- 
mingo Arnoldo Arlenio, che fu per molto tempo agente 
e fiduciario del Mendoza (1538-1547) e poi andò a 
finire a Firenze e a Mondovì nella tipografia di Lorenzo 
Torrentino (1564). Paolo Manuzio diceva che Antonio 
Agustìn era il tesoriere « di ogni antichità ». 

■ La biblioteca, che a prezzo di sacrifici e di tenaci 
ricerche Antonio Agustìn aveva raccolto in Bologna, a 
Firenze ed a Eoma — un migliaio di codici latini, greci, 
italiani, castigliani e catalani — lo seguì in Ispagna 
quando egli fu assunto alla dignità vescovile di Lérida 
ed arcivescovile di Tarragona; e dopo la morte di lui 
passò a far parte delle collezioni delP Escuriale (1). 



(1) N. Antonio, Bihl. Hisp. Nova, I, 103, avverte che « Martinus 
Bay lo canonicus tarraconensis Tarraconae 1586 in-4 apud Philippum 
Mey » publicò il catalogo dei manoscritti latini e greci dell' Agustìn : 
« bibliothecae quam possidebat tam Graece quam Latine manuscr. 
librorum ». 

Del libro del canonico Martin Vailo la Biblioteca Nazionale di 
Firenze possiede un bell'esemplare. È preceduto dal ritratto dell'Agustìn 
« annorum LII » e reca nella prima pagina il titolo: « Bihliotheca Ma- 
miscfipta Oraeca » e nella 8' : « Ant. Augustini Tarraconeusium Anti- 
stitis Bibliothecae Ms. Grecae Anacephaleosis ». La Bibl. Graeca com- 
prende 272 codici. Segue la Bihliotheca Ms. Latina ohe abbraccia 561 
codici, di cui molti italiani, castigliani e catalani di molta importanza); 
vien poi la descrizione di 975 incunabili e libri teologici latini e vol- 
gari. Il libro è ed. « Tarracone, apud Philippum Mey MDXXCVII ». 

Se questo libro è quello stesso indicato da N. Antonio (cosa di cui 



126 



Il codice dell' Escuriale, che contiene il poema di 
Uguccione da Lodi, era compreso in quella preziosa bi- 
blioteca di testi medievali. È un libretto di pergamena 
scritto alla fine del sec. XIII. Esso contiene un florilegio 
di sentenze estratte dalla Bibbia e dai Santi Padri inti- 
tolato Seintillae Befensoris, delle orazioni latine, alcune 
laudi volgari, la « Passio domini nostri Jhesu Ohristi se- 
cundum Johannem » e una breve scrittura (e. 100-113), 



dubito, non corrispondendo l'anno di stampa, né la descrizione data 
dal GrRAux, op. cit., p. 285), si tratta di un volumetto di grandissima 
rarità. Se ne conoscono soltanto poche copie. 

Il catalogo fu compilato dall' Agustìn stesso, negli ultimi mesi 
della sua vita ; il canonico Martin Baylo (o Vailo) alcune settimane 
dopo la morte di lui ne curò la stampa. La pubblicazione deve essere 
avvenuta in disordine, perchè grande era la curiosità degli studiosi e 
dei bibliofili. All' Escuriale si conserva ancor^ la copia che fu fatta 
fare in gran fretta, prima che i fogli di stampa fossero tutti tirati, per 
il re Filippo II. Il re, subito ch'ebbe ricevuto quel libretto, incaricò 
il dottor Valverde di compilare un rapporto sull'acquisto della Bi- 
blioteca dell' Agustìn ; ma di quel rapporto non fu tenuto conto alcuno 
e sembra che tutto il fondo Agustìn sia entrato allora all' Escuriale. 
Per i codici greci la cosa è stata perfettamente chiarita da C. Graux, 
Essai sur les oHgines cit., p. 305 e sgg. Ma non può dirsi altrettanto 
dei codici latini. Il Valentinelli assicura che una buona parte di essi 
acquistati da G. B. Tolva nel 1594, finirono poi nella biblioteca del 
monastero di Santas Creus, altri entrarono in quella del Duca di 
Villahermosa, e altri ebbero altro e più comijlicato destino, 

Kecentemente M. Barbi, Studi sul canzoniere di Dante, Firenze, 
1915, p. 511, ha pubblicata la tavola d' un manoscritto di rime antiche 
italiane, che proviene dalla biblioteca dell' Arcivescovo di Tarragona 
ed ora è all' Escuriale (e. III. 23). 

Non pare dunque venuto il momento di ricostruire la storia del 
fondo italiano e dei fondi neolatini della Biblioteca di Antonio Agustìn ? 

Una « Suma chronologica de la acciones mas ilustres del arzobispo 
D. Antonio Antolin » fu composta da un suo nipote omonimo apparte- 
nente alla compagnia di Gesù. 



127 

forse di atteggiamento ereticale, che incomincia: Haec 
est vera vita (1). 

Jl nome del trascrittore — Marabottino — si rivela 
nel distico clie è a e. 44: 

Qui scripsit scì'ibat — semper cum domino vivai. 
Vivai in celis — Marabotinus nomine felix. 

Il testo del poema reca ben visibili sopra il fondo 
lombardo almeno due altri strati dialettali. Il primo 
strato che è il piti antico, è veneto, anzi veronese. Lo 
si riconosce dalle tracce seguenti (2) : 

I — dileguo delPa atona di penultima: conbatre (13), 
metre (350-351). 

II — V -0 per -i atona nell'uscita : enango (37), 
anango (53). 

Assai più numerosi, più vasti e profondi sono i fe- 
nomeni che ci riconducono al centro delP Italia, cioè al 
territorio umbro-marchigiano (3) : 

I — la costante distinzione tra -o ed -u atoni nelle 
finali : suttu (1), sumnu (2), aversariti (11), strupu (19), 



(1) Biblioteca deU' Escoriai, cod. d. IV. 32, di carte 134 (130 X 95). 
È descritto dal p. G. Antolìn, Catàlogo de los códices latinos de la 
Beai Biblioteca del Escoriai, Madrid, 1910, voi. I, p. 527. L' Antolin 
gli assegna la data: « siglo XIV ». Al Padre Antolin, che mi fu largo 
di aiuto durante lo studio di questo codice, vadano le mie grazie 
sincere. 

(2) Cfr. L. BiADBNE, La passione e la resurrezione negli Studi di 
Filol. Bomanza, I, 225. 

(3) Cfr. E. Monaci, Antichissimo ritmo volgare sulla leggenda di 
8. Alestio nei Bendiconti della B. Accad. dei Lincei, s. V, voi. XVI 
(1907) p. 104- 132; C. Salvioni, Il pianto delle Marie in antico volgare 
marchigiano, negli stessi Bendiconti, s. V, voi. Vili (1899), p. 577. 



128 



mundu (25, 146, 173, 175), deeretu (147), Jiolu (189), 
nostru (199), fumu (213), hestiolu (215), ventu (186), 
^^wt^ (116) regnu (95), jt^«<i* (97), malignu (328), celu (85), 
silenciu (114) ecc. 

II — Lametafonesi promossa da -u (sunnu, mundu) 
e la metafonesi promossa da -i : munti (412) demuni 
(239), enhassaduri (99). 

Ili — j rimane invariato: motore (101), iw^ift* (97). 

IV — Gj talvolta si risolve in j : jente (117), fuir 
(fuggire) 182, fuiente (41). 

Y — Lj dà il taiente (177), pavaione (104), òataia 
(162-205) ecc. 

VI — Frequentissimo il raddoppiamento sintattico. 
a-sseola (24), e-ssonara (113), no-sse ,(135), e ssuseitae 
(69) e-88oi (99) — e-lli (67, 76 ecc.), e-lle (120), cà-ZZe 
(37), e-ffali (153), Jce-lla, Ice-Ilo, Ice-Ili, ecc. 

Ma vi è un fenomeno caratteristico, che ci permette 
di restringere e di definire ancor meglio e piti esatta- 
mente l'area linguistica, donde usciva il copiatore Ma- 
rabottino : 

VII — V-i finale è sostituito da -e specialmente 
nei plurali maschili : le tempe (172, 263), li come (113), 
le done (= i doni), 128, 158. 

È un fenomeno schiettamente umbro (1). Il nome di 
Marabotto è diffuso nei secoli XII, XIII e XIV un 
poco dappertutto: a Lodi nel 1192 (2), a Genova nel 



(1) Cfr. C. Salvioni, ree. alle poesie in dialetto perugino del To- 
relli in Giorn. storico della leti, ital. XXVIII, 204. 

(2) C. Vignati, Ood. Dipi. Lod. Ili, 186: « Marabuttus Co- 
nonus... >> 



129 

1167-1256 (1), a Macerata (2), a Firenze (3). Era un 
nome orientale (arabo marabut) che in origine si dava agli 
arabi o agli ebrei convertiti; equivaleva press'a poco 
al cinquecentesco marrano (4). Ma non so se questo 
significato originario del nome abbia relazione colle 
tendenze eretiche del libro compreso nel codice del- 
l' Escuriale. 

Un Mar ab otto è citato nel libro DelVorigine della 
poesia rimata di G. M. Barbieri, tra gli antichissimi 
nostri poeti (5) e un Marabottino da Arezzo è in- 
dicato come poeta lirico, sulla scorta d' una breve 
nota del Eedi, da tutti gli storici della letteratura an- 
tica (6). I Marabottini di Arezzo emigrarono ad Or- 



ti) Cfr. F. TORRACA, Studi della lirica nel Duecento, p. 360. 

(2) F. Sacchetti, nov. CXXIX : « al tempo che la chiesa di Eoma 
perdea la marca d'Ancoua fu un uomo che si chiamava Marabotto 
da Macerata ». 

(3) Nel 1282 trovo Ghino di Marabottino Tornaquinici (I. Del 
Lungo, Dino^, B. I. S. IX, 78 n.); nel 1316 e nel 1318 un altro Ma- 
rabottino de' Tornaquinici che morì nel 1340 (Delizie degli Eruditi To- 
scani, IX, 135; XI, 219; XIV, 273). 

Nel 1385 Marabottino de' Tornaquinici rinunciava al nome di Torna- 
quinici e dichiarava « se et suos discendentes velie de cetero nominar! 
de Marabottinia » (Delizie cit., IX, 280). 

(4) Marahot diventa in provenzale sinonimo di falso: ah motz ma- 
rabotz dice Peire d' Alverkia (cfr E. Levy, Provenz, Supplement. 
Wórterbuch, V, 118). M.&va\)otto = Moràbit arabo, santone; cfr. A. G, 
Cesareo, La poesia sisiliana sotto gli Svevi, 1894, p. 10. 

(5) <<. Lanfranco Morabotto di cui habbiamo una canzone che co- 
mincia Longo tempo ho servuto » (G. M. Barbieri, Dell' origine della 
Poesia rimata ed. G. Tirabosohi, Modena, 1790, p. 143). 

(6) G. M. Mazzuciielli, Scrittori d' Italia, Brescia, 1753, I, P. II, 
p. 1030. 



130 



vieto (1), e in Orvieto tra i molti cittadini compresi nel 
catasto del 1292 (2) trovo pure un « Marnabutius ». 
Sarà costui il compilatore del codice dell' Escuriale ? 

DelP eresia patarina Orvieto fu una delle città che 
prime si fecero ospizio e ricetto. Per una lunga serie 
di decenni, anzi di secoli, la storia di Orvieto si può 
riassumere nella lotta d^i paterini contro il potere pon- 
tifìcio (3), e la stessa vicenda dell' aspra contesa tra 
le due avverse fazioni dei Monaldi e dei Filippesclii si 
spiega coll'antitesi degli interessi e delle dottrine pata- 
riniche contro interessi e dottrine papali. E « come a 
Milano è sempre la strada dei pattari, in Orvieto una via 
fuori Porta Maggiore è detta ancora la patarina »(4). 

I Patarini d' Orvieto avevano contii^ue relazioni coi 
loro confratelli sparsi nelle varie città della Lombardia, 
e specialmente con quelli di Cremona ; nei documenti 
patarinici di Orvieto noi possiamo seguire minutamente 



(1) «Furono i Marabottini dei più antichi cittadini di Arezzo e 
e le loro memorie risalgono ai primi del seo. XIII, se non vanno an- 
che più indietro. Ma dopoché in processo di tempo essi ottennero di 
essere ascritti alla civiltà orvietana, alcuni di loro vennero ad abitare 
in Orvieto, ove in breve crebbero in altissimo stato ». Così W. Valen- 
TiNi, Il patrimonio di Fisimho e Filidio Marabottini noh. orvietani, 
Orvieto, 1895, p. 5., 

(2) G. Pardi, Il catasto di Orvieto dell'anno 1292, nel Bollettino 
della R. Deput, Umbra di storia patria, voi. II, p. 296. 

In un processo dell' Inquisizione d' Orvieto nel 1269 si parla d' un 
frate francescano che aveva frequenti conciliaboli coi patarini Gualdino 
e Magalotto (L. Fumi, / Patarini in Orvieto nelVArch. Stor. Ital., 
1875, 8. III, voi. XXII, p. 79). Dovrà leggersi: Marabotto? 

(3) L. Fumi, 1 Paterini in Orvieto, ueW Archivio Storico Ital. Serie 
III, voi. XXII (1875), p. 52-81. 

(4) L. Fumi, op. cit., p. 81. 



131 



i viaggi di quei cittadini in Lombardia per assistere 
alle discussioni della setta, per prendere accordi, per 
portarvi e riportarne carte e libri religiosi (1). Quando 
Dante (Purg, VI, 106) accosta le fazioni di quelle due 
città pur così lontane : 

.... Montecchi e Cappelletti, 
Monaldi e Filippeschi.... 

forse pensava a queste sottili e costanti relazioni pata- 
riniclie tra le frazioni che si guerreggiavano Tuna con- 
tro l'altra nell'Umbria e nella Lombardia. I continui 
scambi intellettuali e i viaggi dei patarini di Orvieto 
in Cremona spiegano come il libro del Cremonese Uguc- 
cione abbia potuto andare a finire laggiìi, dove nessuno 
aveva pensato a cercarlo. 



(1) L. Fumi, op. cit.. p. 68: «Diamo per sicuro che gli eretici di 
Orvieto avessero intimi legami in Lombardia, focolare principale in 
Italia d'eresie. Difatti s'è già veduto quanta parte avesse Pietro Lom- 
bardo negli avvenimenti del seo. XII ; abbiamo poi clie Pietro Buonin- 
segni nobile orvietano andava a Cremona ad intendersela co' Paterini 
e ad udire le loro dispute ». 



Gap. Vili. 
Conclusione. 

L'eresia patarinica e i primordi 
della poesia italiana. 

Alla nostra letteratura — per solito — non si rico- 
nosce un'esistenza piìi antica dei tempi fredericiani (1). 

A testimonianza di ciò si sogliono invocare le parole 
di Dante che in un luogo del De Vulgari Eloquentia 
(1. 12) e in un altro della Vita nuova (§ 25) avrebbe collo- 
cati gli inizi della nostra poesia soltanto durante il re- 
gno di Federico II. Ma nell'uno e nell'altro luogo Dante 
accenna soltanto alla lirica d'arte, e specialmente alla 
lirica amorosa di derivazione provenzale. È estranea ai 
confini della sua trattazione ogni altra specie di lette- 
ratura e di poesia (2). 

Nel Mezzogiorno e nel Settentrione la poesia italiana 
ebbe vita e sviluppo anche ben prima dei tempi di Fe- 
derico II. La presenza in Cremona, tra la fine del se- 
colo XII e il principio del sec. XIII, d'un rimatore di 



(1) Cfr. K. VossLER, La Divina Commedia studiata nella sua ge- 
nesi, trsià. S. Jacini, Bari, 1913, voi. II, p. 558 e sgg. 

(2) « Io tengo per fermo elie la poesia volgar siciliana sia nata 
avanti il regno di Federico II ». G. A. Cesareo, La poesia siciliana 
sotto gli Svevi, Catania, 1894, p. 17 — « Noi possiamo star certi che la 
poesia popolare in Italia e sopra tutto in Sicilia ebbe vita umile ma 
tenace anche avanti il sec. XIII». Cesareo, op. cit., p. 401; e del 
Cesareo cfr. anche Le origini della jwesia lirica in Italia, Catania, 1899, 
p. 105 e sgg. 



134 



una personalità così tormentata e così complessa co- 
m'era quella di Uguccione da Lodi, ci rivela che già 
nel periodo comunale i tempi erano maturi per l'eser- 
cizio dell'arte: e sopra tutto erano mature le coscienze. 

L'afonia della letteratura italiana durante gli ultimi 
secoli del medio evo (XI-XII), quando si schiudono in- 
vece con così rigogliosa fioritura la lirica provenzale e 
l' epica francese, costituisce uno dei problemi piìi oscuri 
e piti aspri. La causa di questo evidente ritardo rispetto 
alle letterature sorelle viene ormai per lunga consuetu- 
dine ricercata nella persistenza della tradizione latina, 
la quale deve aver soffocato e represso ogni tentativo 
poetico volgare, e deve aver fatto considerare come di 
valore inferiore ogni esercizio stilistico- divergente dal- 
l' uso latino. Ma le manchevolezze di questa teoria del- 
l' influsso latino sono già state sagacemente additate 
da molti. 

Se la sterilità della poesia volgare fosse così diretta- 
mente connessa con la vigorìa della cultura latina, « la 
letteratura latina avrebbe dovuto fiorire con tanto mag- 
giore rigoglio e con tanto pili splendida ricchezza quanto 
piti lungamente e rigorosamente l' italiano rimase escluso 
dalla poesia. Invece avviene proprio il contrario » (1). 
Non si ebbe una poesia volgare; ma non si ebbe nep- 
pure una poesia latina. 

La sterilità della nostra poesia non deriva da cause 
esteriori come son quelle che si riflettono in fenomeni 
culturali, ma deve ricercarsi in motivi assai più pro- 
fondi. Siamo di fronte a un fatto spirituale ; come tale, 



(1) K, VossLER, op. cit.. p. 562. 



135 



esso dunque va indagato e spiegato non già con mo- 
tivi esteriori e meccanici, ma con impulsi e motivi della 
vita spirituale. È un fatto che deve essere esplorato 
entro V anima stessa di quegli uomini, e non al di fuori ; 
non nel meccanismo materiale della cultura, ma nella 
conformazione organica dello spirito. Di questa ricerca, 
rinnovellata secondo i nuovi avviamenti filosofici dei 
tempi nostri, ecco la somma, racchiusa in brevi e sche- 
matiche parole : « La nostra stirpe non ebbe letteratura, 
né volgare né latina, per una vera indifferenza o ste- 
rilità del suo spirito » (1). 

Lo scarso amore per la poesia non deriva da cause 
che si circoscrivono entro l'ambito della storia della 
cultura medievale, ma da cause assai piti remote e pro- 
fonde, e cioè dalla fondamentale incapacità lirica della 
razza latina. Gli italiani del Medio Evo non ebbero un 
draihma né un' epica, né una poesia lirica ; ma V ebbero 
i latini nell'età classica? Il dramma, l'epica, la lirica 
latina sono creazioni riflesse, formazioni fittizie, prodotte 
dall'imitazione greca e dalle mode letterarie d'una so- 
cietà colta e raffinata. La gloria della civiltà latina con- 
siste soltanto nella grandiosità delle sue costruzioni giu- 
ridiche e politiche. Non é frutto di aspirazione trascen- 
dentale e di ispirazione poetica, ma é frutto del senso 
pratico di quegli uomini d'azione. Della civiltà classica, 
che la distanza dei tempi ci fa apparire così compatta 
e unitaria, sono ben riconoscibili due aspetti opposti ed 
antitetici: il lirismo degli Elleni e la praticità dei Eo- 



li) E. G. Parodi, L'eredità romana e l'alba della nostra poesia, Fi- 
renze, 1913, p. 32. 



136 



mani. Della civiltà antica l' Eliade è lo spirito clie crea, 
e Eoma è Fazione, clie concreta e che forma. Ai loro 
discendenti medievali, i Romani non potevano lasciare 
in eredità doti e attitudini spirituali che essi non pos- 
sedevano punto. L'eredità latina consiste interamente ed 
esclusivamente in quel mirabile senso pratico che resi- 
ste tenace alle mutazioni dei secoli, e si rivela nel culto 
delle scienze utilitarie (la medicina e la giurisprudenza), 
nell'accortezza dei traffici, nell' abilità giuridica con cui 
sono svuotate d' ogni contenuto le tradizioni feudali (1). 

In questa rappresentazione sintetica vi è innegabil- 
mente del vero ; ma certo essa non racchiude e non con- 
chiude tutto il vero (2). 

L' Italia medievale non fu sempre immersa nella grossa 
prosa dei suoi traffici, né affogata nella ricchezza delle 
sue banche e delle sue industrie. Né direi che durante 
tutto il Medio Evo l' anima degli italiani sia stata sem- 
pre anima di « mercanti, di giuristi e di borghesi » (3), 
acuti d' intelligenza pratica, ma gretti d' intelligenza spe- 
culativa (4). 

L'eresia del secolo XII spalanca il chiuso della cul- 
tura scolastica e clericale del Medio Evo e fa entrare 



(1) Cfr. F. NovATi, L'influsso del pensiero latino sopra la civiltà ita- 
liana del Medio Evo^, Milano, 1899, p. 91 e sgg. 

(2) Accogliendo senza riserve questa teoria della sterilità poetica 
latino -italiana, bisognerebbe per coerenza accogliere tutto quanto il pen- 
siero della critica romantica, che ha dato forma e materia alla teoria 
delle razze. E si arriva così alla critica letteraria della tempra di quella 
del Taine, ed, oltre il Taine, alle fantasticherie « razziste » del conte 
di Gobineau. 

(3) E. G. Parodi, L'eredità romana, p. 43. 

(4) E. Gv Parodi, op. cit., p. 46. 



137 



nella vita italiana una corrente d'aura fresca e prima- 
verile. La religione cristiana non fu mai così profonda- 
mente sentita come in quel momento. Superate le aspi- 
razioni mondane che la vastità del dominio e l' antichità 
delle istituzioni avevano conferito alla chiesa, i credenti 
ritornano ancora una volta alla semplicità dei vangeli 
e all'impeto creativo dei primi secoli. La fede non è 
piti una dottrina imposta, amministrata e manipolata 
da una casta privilegiata; ma è una spontanea germi- 
nazione delle coscienze. Il cristianesimo primitivo si 
rinnova e si ripete. Le crociate e i pellegrinaggi, po- 
nendo quegli uomini di fronte al paese dei Vangeli, 
imprimevano in essi una aspirazione potente al ritorno 
verso le origini del cristianesimo. « Era come un rifarsi 
alle sorgenti tangibili della fede, come un rimettersi 
faccia a faccia con l'umiltà e l'iimanità del Salvatore » (1). 
L'eresia del secolo XII ha un carattere del tutto di- 
verso dalle eresie antecedenti, anzi ha un carattere del 
tutto opposto ed antitetico. Kon è più un dibattito in- 
tellettuale che muove da dottrine teologiche, e si com- 
pie mediante sottigliezze e virtuosismi dialettici; ma è 
un vasto turbine popolare, che trascina e coinvolge le 
larghissime moltitudini degli uomini semplici e incolti. 
L'eresia non è piti un fatto che si svolge entro la cer- 
chia della casta clericale; ma è un fatto popolare e 
laico (2). Non sono piti di fronte due schermaglie dot- 



li) G. Volpe, Eretici e moti ereticali dal XI al XIV secolo nei loro 
motivi e HfeHmenti sociali, nel Uinnovamento , I, p. 066. 

(2) « A partire dal secolo XII l'eresia prosenta dei caratteri anti- 
tetici a quelli delle eresie anteriori. Il catarismo, l'arnaldismo ecc. non 
commuoyono più quasi esclusivamente gli ambienti ecclesiastici, ma 



138 



trinali, ma due concezioni morali e spirituali profonda- 
mente diverse. 

Mentre il medio ceto delle città elabora le nuove 
forme giuridiclie e comunali, ispirandosi a quei concetti 
utilitari e pratici che il Parodi ha così ben raffigurati 
e descritti (1), la plebe, che era dianzi « premuta so- 
pra i solchi, dispersa per le campagne in piccoli aggre- 
gati senza moto e senza cultura », ora batte alle porte 
della società medievale, e vien ricercando in queste raf- 
fiche religiose ed ereticali una sua propria concezione 
spirituale e morale. « Ogni grande rivolgimento storico 
non è in fondo se non questo: l'avanzarsi di classi 
nuove con proprie e nuove attività pratiche, forme di 
ricchezza ecc., con nuovi e propri bisogni morali e spi- 
rituali e concezioni o intuizioni della vita e del mondo. 
Si ripete in gente nuova la condizione psicologica dei 
tempi che vedono religioni nuove sbocciare e vecchie 
forme di fede riempirsi di un contenuto nuovo. Come 
sorgono a migliaia le belle chiese romaniche, così si 
riedifica qualche cosa anche nelle coscienze. Alle nuove 
forme architettoniche che si delineano nella fantasia di 



pervadono l'anima tutta del popolo, non reclutano i loro propagandisti 
tra il clero e gli eruditi, ma tra i laici e gli illetterati ». A. De Stepako, 
Saggio sui moti ereticali dei secoli XII e XIII, Roma 1915, p. 4 e sgg. 
(1) E. G. Parodi, op. cit., p. 43: «Quegli uomini che ayevau lot- 
tato nei loro piccoli borghi, nelle loro piccole città per conquistarsi un 
poco d' indipendenza e un poco di ricchezza, non avevano certo appreso 
in questa rude lotta di grandi risultati, ma di minime azioni a dare al 
loro nativo istinto pratico e utilitario un vasto contenuto, ad 
allargare lo sguardo di là dalla cerchia del loro immediato interesse, a 
nutrirsi di idee, a riempire i loro rari ozi con esercizi dello spirito senza 
scopo apparente, con puri e disinteressati godimenti estetici. Erano in- 
telligentissimi e arditissimi pratici, ma intellettualmente ancora gretti ». 



139 

artisti usciti dal popolo e che altri del popolo traduce 
in opere tangibili, corrispondono nuove intuizioni o di- 
sposizioni religiose del popolo. Si sente in modo più 
semplice, immediato, giovanile, direi anche primitivo. 
Si avverte quasi un più diretto rapporto con la divinità, 
come per la suggestione del fatto materiale di una più 
libera attività pratica che il popolo viene ora esplicando 
attorno alle chiese, almeno alle stie chiese, alzate coi 
danari e con V opera sua » (1). 

La lotta delle investiture, la ribellione dei vescovi 
feudali al papato, lo spettacolo della corruzione del clero 
simoniaco, a poco a poco sciolgono la plebe dalla sog- 
gezione al sacerdote. E la ribellione alla disciplina ge- 
rarchica della chiesa si traduce in un' avversione al- 
trettanto tenace verso la cultura latina, eh' era vanto 
e patrimonio del clero. Gli eretici non hanno scrupolo 
di dichiararsi idiotae atque illiterati, Nei processi ere- 
tici gli inquisitori insistono sopra questa imperizia cul- 
turale, che è per essi segno di inferiorità intellettuale, 
mentre è per gli accusati segno di superiorità morale 
e politica. Poiché la cultura latina era stata lo stru- 
mento della perversione della chiesa, e la raf&natezza 
del pensiero era compagna inseparabile della corruzione 
del costume e dell'anima, gli Eretici proclamano chia- 
ramente tutta la loro indifferenza, anzi il loro disprezzo 
per la latinità e per il sapere: « Dampnant et repro- 
bant studia privilegiata, dicentes ea fore omnimodum 
vanitatem ». Le università, essi dicevano, sono un per- 



(1) Sono parole del Volpe nel mirabile studio sui Moti Ereti- 
cali, p, 666. 



140 



ditempo ; « universitates scholarum reputant inutiles et 
temporuin perditionem » (1). Scomparso il valore delle 
forme tradizionali, il latino, che era pure stato il viatico 
della diffusione della fede, viene abbandonato del tutto. 
« È forse un fatto riflesso : i fedeli vogliono comprendere 
ciò che dicono, ora che anche fra il popolo si diffonde 
come una curiosità nuova di intendere le quistioni della 
fede. Ma è piti ancora un fatto spontaneo ed inconscio. 
Il sentimento dei fedeli, che è piìi vivo e profondo, 
cerca anche una più immediata e propria espressione^ 
si estrinseca nelle forme della lingua materna che è più 
lucido specchio delF anima. Si sente, direi quasi, volgar- 
mente e volgarmente si dà espressione al sentimento. 
È Punita creativa dello spirito giovane che si manife- 
sta » (2). L' origine e la vita delle letterature neolatine 
son strettamente connesse con questo fermento religioso, 
con questa irrequietezza spirituale delle classi nuove 
che premono contro le porte della società feudale. « Le 
prime traduzioni francesi della bibbia risalgono sino ai 
primi anni del secolo XII. Lamberto, a cui si fanno ri- 
salire le origini de' Beguardi e che morì nel 1177, si 
occupava già della traduzione della Bibbia, mentre Yaldo 
faceva tradurre gli evangeli e altri libri della scrittura, 
nonché una raccolta di padri nel dialetto di Lione. Ma 
Yaldo, come i suoi discepoli di Metz, i quali verso il 1220 
facevano tradurre la bibbia nel dialetto lorenese, non fa- 
cevano che seguire la tendenza generale dell'epoca » (3). 
Si ripetono le circostanze spirituali che hanno promosso 



(1) A. De Stefano, Saggio, p. 9 n. 4. 

(2) G. Volpe, Moti Ereticali, p. 6 67. 

(3) A. De Stefano, Saggio, p. 13. 



141 



le origini della poesia greca : la freschezza creativa dello 
spirito religioso si traduce ed esprime nel nuovo lin- 
guaggio della poesia. E quel fatto si rinnova nella sto- 
ria, ogni qual volta una crisi religiosa o \m grande tra- 
vaglio filosofico strappi alla bocca dell'uomo un grido 
di amore o un grido di dolore. Dopo la grande fioritura 
ascetica dell' estremo Quattrocento, con la traduzione del 
Nuovo Testamento e della Bibbia compiuta da Lutero 
(1522-1533) ha inizio la nuova letteratura tedesca (1). 

La creazione del mito nella civiltà ellenica, l'eresia 
nella civiltà medievale, la riforma nella civiltà del ri- 
nascimento sono fatti analoghi, che sboccano in mani- 
festazioni spirituali e letterarie analoghe. La poesia non 
è un fatto meccanico che possa essere promosso da cause 
materiali, come sarebbero la volontà d' un sovrano (Fe- 
derico II) o l'imitazione di forme straniere. La poesia 
sorge per un vasto e profondo travaglio delle coscienze (2). 

Lo schiudersi delle letterature volgari è una delle ma- 
nifestazioni piti vistose e più significative di quella crisi 
religiosa della società laica, che va dalla Pataria al moto 
francescano. Senza quell' ininterrotta catena di pensieri, 
di affetti e di travagli spirituali, neppure Dante avrebbe 
detto una sola parola, né formato un sol verso. 



(1) F. Bezold, Storia della riforma in Germania, trad, P. Valbusa, 
Milano, 1902, p. 438. 

(2) Dopo la grande crisi filosofica e religiosa del secolo XII e XIII 
si ha il dolce stil mwvo ; dopo la grande crisi filosofica del '700, il Bo- 
manticismo. 



Il Poema sulT Avvento delT Anticristo 
Trascrizione diplomatica. •# 

Incipit Liber Anticliristi (1). 
[Cod. D. IV. 32. dell'Escoria], e. 125 Bj. 

Cum eo me stava ad uiibria sutu un niello dor — miii- 
sunnu esivisa un viso audi cantar lasuso — in paradiso. Sancto 
michael e langle cherubini. — Lo canto e bello ma i no lo 
so conplito. — te laudo deu de go che nu audimo. — Audi 
sancto michaele davant lu salvarne . — portari incenso et far 
loracione. [e. 125 h] e di e noite adeu fa9e reclamore. — 
Syr indulge per li omini pecatori. — ke laversariu denferno 
inferiore. — sien al mundu e far le so vertue. — fa li omini 
conbatre a dol et a furor. — si vano ad inferno a gran per- 
dicione. — Siri indulgencia abi redencion. — finite son le ete 
el mondo se versato — or semo el tenpo ke l'aversario e 
nato. — en babilonia concepto e generato — de aulterio de 
strupu e de peccato — oi antichristo sedutor fel bassator — 
tu in besayda cresudo e nutrigato — incorona la entro quel 
contato — Staraitu asscola così e profetegato — fine in XXX. 
anni stara plano comotro — ke tutol mundu per lu sera tur- 
bato — Quando XXX. anni lo fel avera conpliti — tute le 
arte si forte avera elo inpreso — kel no sera al mundo hom 
si cortese — tanto sia savio ne si forte ne si gentille — 
[e. 126 a] ka lui contrario ause parlar ne dir — per^o dira 
la gente ke sia re — quando lo fel sera laudato — en la casa 
de Deu stara cum inperator — grande falsitae al mundo avera 



(1) Sciolgo i nessi. Indico con una linea ( — ) la fine di ciaecuna riga. 



144 

parlare — dira lo fel aiidite gente audite e ascoltato — keu 
8um Xristo ke tant ave spetate — ke le merabilie §alle ve- 
deri per enango — dellatro di sia enbandir la 9eiite — ke de 
tutol mundu a lui sera presente — fel antixristo farà li en- 
cantamenti — si andarano dentro al mar fuiente — si la tur- 
bar perfln al fundamento — levara le unde final seren lugent 

— Qualo sera tal dol e tal tormento — ke deo aiu nul hom 
dira nient — cadera in terra quasi morti e dolente. — [..] que 
ensengne signor avemo audite — le altre le qual farà linimico 
aucilennun. — El venirà el canpo lan§et stara cum sego — do 
mil millia diavoli sera el pieno — [e. 126 h\ fogo fervente 
farà piover da ^elo — ke arderà le erbe e li arbor el fron- 
deto — poi anango farà la tor§a ensegna — farà fiorir le arbor 
della selva — tara fiorir ima mai no farà de pera pa. — dira 
pagani questa e grande insegna — La quarta ensegna farà in 
cotal tenpesta — venira ali fiumi a le aque ke diverse — 
farali cornar entro con la tenpesta — dirali Sancti questa e 
falsa potestà. — La quinta ensegna audite se ve pla^e — ke 
farà lo fello cui turminti malie — cun arte magica farà sua 
voluntate — tuti le demonii a encantare — el vera ali morti su 
li farà levare — e Ili demonii dentro linferno parlaraa — ki 
no sera ben saviu e ki questo no saverse — pur dira questi 
morti e ssuscitse — questi sera lingentamenti ke fera lo fel 
per noi engan[are] — e noi pregemo Deu la dengna mage- 
state — ke de cotal potestà ne digni quardare — [e. 127 a] 
Enang ke sia queste cose e queste rasone — tute le aque 
quante requarda lu sole — pinole e grande e Ili lagi e li fiumi 

— si sa secar per multu glande calor — la terra sa avriie 
soto andera li omini — per gran paura clamara ad alta 
vose — Deo ke nui creasti misererò de noi — Ora n aiuta 
Deu §a semo toi creature — karser tu ne creasti a le toi 
figur — Ora n aiuta nui en questu iudiciu ke non sean per- 
dili — ma el fin del seculo quat elle firma — tremerà li sancti 
ke in paradiso stae — - li angli del gelu si grande paura averae 



145 

— fora del paradiso ca esser ca§ae — la nostra sancta donna 
matre del creatore — si farà prego a Deu nostra segnur — 
mar^e bel sir Deo del toi pecatori — noli dar tanta for9a kel 
fa^a paura — li omini sun fragili ben tosto sera per9uti — 
crera in lui fatando le vertuti — sequira le so ale quanti sera 
strotuti — De franga vegnira un grande segnor — del regnu 
de talia sera linperatore — quel a mantinir a gloria et anore 

— [e. 127 ò] Cum fece karlo lo iustu enperatore — stara 
in roma cun alquanti soi baroni — de ultramar vera li 
enbassaturi — sex millia et ecc. encantatori — cum segu 
avrà lor brevi e lor sermoni — le soi albergane farà inpor 
neronne — tendra soi drappi e ssoi pavaioni — a enbandir 
la potestà maiore — lo re de talia en franga en scalloni 

— tuta galigia bertagna e borgodoni — terra todessca en- 
gelterra e scoti — apullia gallabria gecillia e guasconi — 
UDgarria sclavaiia vavari e sansoni — pur viscovi et abatri 
conti e marchisi e dux — zunta sera la gente de ogna re- 
gione — facto lo rengo en medio para nerone — cornara li 
corni e ssonara le tube — facto sera sileuciu onomo avrà tre- 
more — Quando queste cause sera cosi ordenae — unu de 
questi mesi comengara parlar — avrà laiete forte avrà cridar 

— i fati dell'atex.o de dir no a dotar — audite gente audite 
et ascoltate — forse intendere li diti e Ile anbassate — le qual 
doltra mar si ve son mandate — [e. 128 a\ — [....] semo 
nui el tempo ke tante anunciato — lo re Antix.^ ke in terra de 
regnare — Or lavenmo per summa (1) veritae — le soi mirabilie 
si e grande sanctitate — ma el ve manda salute — e alie e 
page — gracia ella sua bona voluntate — M. libre de auro ve 
manda se voi place — per envestisone daltre done fae — e 
poi ve manda kel sia contato — ke tutol mundo voi metere 
in pace — Altre novelle magne e forgore — si ve diro ke ve 
manda lo grande segnor — ke unca voi venir e mantinir a 

(1) Ripetuto : per summa. 

10 



146 

onor — mai no sse signe e no adori cruce — tute leglesie 
li altri e li oratori — tute sea destrure disperse confun- 
dute — messe cantar mai no sera plue — Quale quel homo 
tant fos auso e bricon — ke no voi audir li bandi e questi 
sermon — perda la testa sen§ ogno tenore — arso sera e bru- 
sato entro in camnino ardor — A quisti diti su se levara lo 
papa sancto — Entro questo rengo si parlara alquanto — ie- 
vara la vox e cridara ad alto [e. 12 8 h] — (1) Oi re de talia 
bonora fustu franco — ke tutul mundu si io al to comando 

— O re tu decretu e caduto in bando — ke lo Antix.° lo 
falso el renegato — te voi cunfundere in morte et in gran 
dano — entro linferno la vel calor el pianto — o e li dragi 
e li serpenti grandi — ke vive en mei fogo si conmo el pesse 
in aqua — ke manduca lì omini e ffali gran damago — le 
pene delle inferno molto merevelose — no le pò on dir tant 
el e periculose — Col cor noi pò pensar ne dir cun le boge 

— Or te reguarda re ke te no castigato — ke queste sun le 
done ke tenprometel falso — le inimico de Deo ke tant' e 
anunciato — ora baroni levati li confaloni — feri entro si li 
angiremo tu ti — fagan bataia cun deu benedicione — si le 
talenmo le teste a questi enkantatori — cotal salute ne abia 
lor segnori — en cotal servisiu per le proferte done — e nu 
orenmo a Deu quel ke verasia luce — ke ne defenda de ma 
de quel larone — de paradiso ne dea porcione — reque eterna 
possan regnar con lui. 

[e. 12 9] — lo re de talia ke ven bandir la gente — audite 
segnor per deu onnipotente — turbate sun le ete e finite sun 
le tenpe — la fin de lo mundu nui laven mo in presente — 
ke TAntex.o fege soi bandement — Turbat a' 1 mundu per 
fine ad ocidente — ora baroni le spato taiente — fagan tal 
colpi laudati seamo senpre — li encantatori que sera turbati 

— lincantar li demoni colli dragi — so grande tenpesta con 



(l) La scrittura si fa più serrata e minuta. 



147 

vcntu sa levare — ke le masone e li albori si sanno scaii- 
gare — e Ili homini se n ano fuir entro le nave — cnn 
grand terrore si a barcar lo mar — In ier[usa]lem (1) stara lo 
re Antex.° di .x. regnu tenra en so dextreto — si con disse 
sancto ioanne evangelista, in apocalypso in uno scripto — ke 
tanti la adarar e portara lin9enso. e si dera kel sia fiolu de 
Deu — la terga parte del mundu sera desfata — questi sera 
perduti entro l' inferno (2) — lo re de tallia caudira questo 
male — per deu temore sia barchar lo mar — sera con lui ella 
sancta cristianità — undecin millia a confalun levati — per 
ognu confalon tanti sera asenblìe — per numero sera XX. M. 
omini armati, ke per conbater sean bene adobse — e pater 
nostra comengara cantar — kirie eleyson le vox al cel levara 

— cun grande procession letanie ordenarae. kera merge a 
Deu ke Hi digni aid [....] — 

[e. 129 h] Aiutane tu Deu magnesta dolgo par. (3) — noi semo 
toi servi tu ne plasmasti — faren bataja e Ila tua fìdelitate 

— Or savera Pantex.o kel nostro re kavalca — no al mandar 
per omini kelli duca arma — pur cun incantaminti farà sua 
arte magica — Anange ke sia la gunta de questo folco (4) — 
si cagera una stella de cellu in mego Ila mundo — e si forara 
infino lo profundu tuta la terra trema — ra dentorno. tul fumu 
scuro ensira de quel prof un — du. kel sa oscurar pur uni- 
verso mundu. entro quel — fumar para tal bestiolu. da tal 
fumo indù tal non — fu veguto. lo cavo avrà e [un] auro pre- 
cioso. le so ale — talento cum ferro e cun rasuro. dedreo 
avrai — le longe elle grosse cuo. sera si forte cun elle segu 

— re. quelle figure sera del mal colore, denan — go avrane 
le brago forte ague. Avrà pilara — si forte quilli omini, li 



(1) Da qui innanzi il poema è trascritto come i)ro8a, senza divisione 
di versi. 

(2) In margine : esti. 

(3) Ritorna la divisione dei versi. 

(4) La divisione dei versi è d'ora innanzi abolita. 



148 

olgeli sano entorno e mor — dera si forte ke al cor di li 
omini si n andara li — morsi, de queste bestie sera tal mnl- 
titude — ne . nnllomo carnalle pora far rasone. 

Poi ne vignira una bestia tan forte — de sua statura sera 
cun unu grande munte — entorno 1 kavo avrala multe corni 
. ke se — an longi forti e multe gròssi . volger sano en — 

[e. 130] torno e firira tan forte . ke dentro da linferno 
sen — na avri le porte tuti li demonii que sera desot — si. 
vegnerà fora per noi condur a morte. — Una nen vignira si 
forte dura . kapena lo — dico si grande n ai la paura . uno 
draco anti — [cjo ke sta en fiamma oscura . zoe lucifer 
maligna crea — i. a cui le demunii tuti adora . e quel ve- 
nira fora — si cun disse la scritura. el menerà nebla ke sera 
de tal — natura . ko sa oscurare sole la luna, tute le stel 
— le tremara de paura. 

La terga part cagera en vai oscura . queAlo sera — la gent 
tuta en tal tremor. da fin principiu — lo tal non fui ancora. 

Lo re de talia vedrà queste convenentre. a se turbar — 
sera multu dolentre . fort clamara oì Deu omni — potente 
per far bataja eu vini cun mea gente. — Or li perguti ne ai 
Consilio niente, lo sancto papa si la — vra confortare, oi bel 
mesere no te reconturbar — ke dex milia baroni ancor ai 
deber n ai per far bataja — a confalon levate . a folco fato 
andaremo a quella ~ tro. ad Antex.° diavolu satanasio — 
fagamo batai — a e si li tale lo cavo . per deu temur manemo 
en — caritae respondra lo re oi deu co ben fui nato — bono 
Consilio e noi cossi fagamo. Et Antex.® audira questi — ser- 
mone . mutara le tenplo e levara lo turbore [e. 130 h] metra 
tenpesta cun ventu e grand furore — qualo sa mutar le 
pensason ne. 

Vedera lo re ke non pora far bernago . ne anbata — ia ke 
no e destinato de la sua vita sera considerato — Ad Antecri- 
sto sol en sera andato . en mego la corte forte ave — ra criato . 
oni bon al rego ke tu tu {sic) lo re romano — lo nostro re 



149 

ben avrà parlato . entro la corte de 1 antex.^ — falso anangi 
toti {sie) sui lo vra vergungato . oi antex.o — corno tu e exal- 
tao . tu e veno de mortai peccato. — e poi te fa orar corno 
fusi salvatore . oi tu dolen — tre con tu e inganato . entro 
1 inferno sera tu condonato — tuto lo profundu dell inferno — 
avrà tu solu caro. — et usque in eternu starai tu en tal mer- 
cato . ke meio — te fose ke tui non fussi nato, et antex.o 
comen^ara — parlare si dulgi diti kom el e suave . oi re — 
de Talia tu e grand potestae . lo cavo del mundu — tu te 
lai a le toi mane . si (1) corno e roma quella — magna ci- 
tade . tu si m a acasanato e dito m ai grand ma — le an- 
cora non sai tu ben la veritate . ora quarda li morti — ke 
io su levati . infirmi ceci multu li o ben crurati — pauperes 
nudi vestii et consilliati . abia abundancia de onia — digni- 
tate d auro e dargento de palli et de pendati abia abundan- 
— eia ki me voi adorar . que che dira de no volerlo fare. — 
perderà la testa e sera decolati . a ti re romano no dira — 
[e. 131] nulo male . abii ligecia de far 90 ke te place . qualo 
se a tornar — lo re con grand dolore . al sancto sepulcru 
vera in oracione a refu — are lo regno con tutu laonor . al 
sancto papa a refuare lo confalo — basara la terra e segne- 
rase in cruce . criara si forte ad alta voce — sclopara lii la 
sangue per me^o i odi . aiutane tu Deu salvatore — si tu 
no n'aiute tuti seren perduti. 

Domino Deu lo justo patre nostro . vederà questo mundo 
pericular — e morte farà venire elia enoc . la fin del mundo 
postra — lavremu noi tosto . quisti ad savere la veritae dal 
torto — nolla lasar per la morte del corpu . In lerusalem 
stara Enoc et Elia — cun Antex.» si pilara la brica . tuta 
la gent ki alo sera enbandita — la cri stianni tate et anche la 
pagania . lo iustu enoc si parlara in tal — guisa cun Deu 
fece lo cello e Ha terra in prima . dira Enoc audite cristiani — 



(1) Da qui innanzi la scrittura è assai più minuta e serrata. 



150 

tate . en tutu 1 mundo enteudal meu parlare . Domino Deu 

— la iusta poestae . el fece tuti no plasmae . el fece li angoli 
de — claritae ke pli* resplende ke no fa lo sol destae. Mai 
de — Lucifer ki lui audis parlare . si grand superbia ke Ila 
in cor — de far dissel malignu ad alto mai levare en par de 
Deu si — me faro clamare ada quella menso dio voio fir- 
mare — li ordini delli angeli ke me farai adorar li omini del 
mundo — elli voi inganare . si lai destrengero farà mia vo- 
lumtae domino deu — lo iusto poestae . vedrà lo diavolo 
ensi grande furor levare — getaralo 9ue en terra poi non le- 
vara sui . fello ca9era en le pe — ne de inferno inferiore . 
la ve lo 9elo e nimio grand caliere, [e. 131 h] — una gran 
tenpesta e fumu con pudore . tuti li soiperbi e soi conpa — 
gnone . que ste antex.o seducture fel anbassatore — felo sper- 
guriu e falso enganatoro . ei face mirabilie — con fosse en- 
cantatore . M. diaboli tuti con lui — tri aùni e mego farà 
cotal virtue. e poi mora con Deu ma — lediclone . et antex.^ 
adira quisti sermoni — sera irato con rabia e con furore . 
enoc et elia so conpa — gnone f arali metro en la sua pre- 
sone — cun gran martirio lia metere en cruce — farali far 
tal morte con fece lo savatore — In lerusalem in me la citae 
tre di in cruce li farà — stare et Antex.» con sua pagana 
gente, in monte oli — vetu farà mangar grande, ora li do- 
nara palii e pendale — cavalli e mulli e palafren danblare 
danante lui sera — tanta gente adunata za no e omo carnai 
ke Ili possa nu — merare . ca lui presente farà si gran can- 
tare . cun si alta — voce la terra ne a tremar, et antex.o or 
li farà scultar — ad alta voce comengara parlare . audite §ent 
audite — et asscultae . venute 1 tenpo ke en cellu voio an- 
andar — lasu en celu si e una ^ent tallo . da fin principiu sen- 
pre — ne fo contrarli e vo lasu si li no ca9ar vera in premiu 

— la su i vai mennar per§o vel dico non ve sconfortae — en 
lo meu regno e vo far regnar . la ^ent 1 au — dir mol se na 
legrar . de lo promissione ke li sera fate tal — et antex.» 



151 

comen^ara volar , tendra le brage ad alto sa levar — ora 
gnardara lo patre de celu . si grande superbia ke me — nera 
laverseriii el mandara messo con Sancto Michael. — si l'acirano 
con spirita devino in momento sean morte [e. 132] — mo (1) li 
ochi de la testa el viso le cose e le brage tutu sera — [...] 
trico lo cor del corpu fora sera ensito . milli diboli {sic) si 

10 — trara sego et li angeli 1 evara unu tal cridor . da ca 
fu — ...undu kotal non fo audito Gloria ti bel re de para- 
diso ke — ne ai quardato de man dell enimico. 

Sancto Michael in la citae de Jerusalem venira lao li no- 
stri — patarini ^aserae . enoc et ellia per nome se clamare — 
mego di scuscitara lia . qualo tuto 1 mondo en pax sera — 
[...]era unca namai no serai . tuta la gent quanta sera creaa 
— [...] a convertire a la cristianitate sancta . anse pentir de 
oni soi peccai — et in fé de X.o sera ben bategae . Morte 

11 antox.o e tuta la terra — a pax . xl. di lo mundo a bra- 
star . mo quanto plui nullo hom — sa certar . mai solu Deu 
la sua magestae . conpliti — li diti ke Deu ordenae . ke 
questo mundo terreno se de desfar — lo certatore farà sua 
voluntate si comò se lege en la — sua devinitae . Per me§o lo 
cellu lo sol si a pausar — al su callor lo mundo se a brusar — 
in u momento si sa — [..] devorar tuti li munti le aque le 
mar — [..]i comu la cera la terra se a scolare, quando ar- 
derà questo mundo — tal caler . stara li angeli in cellu ad 
altitudine . anno — sonar tant fort con le tube . ke 1 ne 
tiemara l'abisso de infer — no inferiore, tuti li morti ke fo 
en questa luce — [...] suscitar al son de queste voce . tuti 
en carne depiena — de vertue qualo averà conpliti le soe pro- 
messione — [...] ura de celo si a star suvra unu grand monte . 



(1) La e. 132 è stata rifilata dal rilegatore, di modo che è scomparso 
il margiu» superiore e con esso la prima riga o fors'auco le prime duo 
righe. La rilegatura troppo stretta ci sottrae le primo lettere e le prime 
sillabo di ciascuna riga. 



152 

li ordini — [...] li sancti si a star con lui elli menerà de celu 
en la sua — vertue . si a finir lo piato del insto dal pecca- 
tore — Quel ke sera da la senestro ke no fo digno del de- 
stro [e. 132 6] — trasea dalo senestro . ma quelle sera dal 
destra lato — 9ascon sera encoronato . lo patre del allur 
dir . — Vu benedicti a mi vini . kel meu regnu imposii — 
ke V© presta e preparato . Si corno a vui e nunciato — ka 
se vigni a vui povero e nudo . da vui fui — redemuu , mo 
e vignuta la summa ke . vane — requor donar ke mego en 
cellu ve farà regnar — en la gloria senpiternale . la qual glo- 
ria quel ne dia — ke na la forga e la ballia — Am. 

JEJxplicit liber Anticristi (1) 



(1) Segue una linea abrasa. 



Il Poema sull'Avvento dell'Anticristo. 

Ricostruzione critica. 

I. 

Cum eo me stava [un Qorno] — a unbrìa sutu un pin, 
[eo si] dormii un sunnu — e si [a]visa' un viso. 
[In sunnu] audì cantar — lasuso in Paradiso 
[lo] sancto Micaél -— e l'angel cherubin; 
5 era lo canto bello — ma i' no lo so conplito. 
Te laudo, Deu, de 9Ò — che ['lora ai'] audito. 

II. 

Audì sancto Michele — davant lu Salvaure 

portar incenso [e mira] — et far l'oracione ; 

e dì e noite a Deu — fel] faQe reclamore : 
10 — « Syr, [abi] indulge[ncia] — per li omin pecatori, 

« kè l'aversariu [è nato] — d'abisso inferior, 

« si è [ve]n[uto] al mundu — a far so [traison] ; 

« fa li omini conbatre — a dol et a furor ; 

« sì vano [ne 1'] inferno — a gran perdicion. 
15 « Sir, [abi] indulgencia — [et] abi redencion ! > — 

III. 

Finite son le ete — e '1 mondo s' è versato : 

or semo [zunti] el tenpo — ke l' a versarlo è nato. 

[El fo] en Babilonia — concepto e generato 

[d' incesto], de aulterio, — de strupu e de peccato. 



154 



20 Oi, Anticristo fel — sedutor [blasfemato], 
[serai] in Besayda — cresudo e nutrigato ; 
[et] in Coroza[im], — là entro quel contato, 
starai tu [nel]a scola, — così è profete9ato; 
fine in trenta anni — co' mo[r]to starà plano 

25 e po' tuto l[o] mundu — per te sera turbato. 

IV. 

[E] quando trenta anni — lo fel avrà conpliti, 

tute le arte sì forte — averà elo inpreso, 

ke '1 no sera al mundo — [nul] omo si cortese, 

V. 

tanto sia savio e [ai dente], — si forte né 9entile, 
30 k'a lui contrario ause — [né] parlare né dir; 
per^ò dirà la gente — ke sia [verasio si] re, 
quando lo fel sera — laudato [e reverio]. 

VI. 

En la casa de Deu — starà cum' inperàt[re], 
gran falsitae al mundo — averà a parlare. 
35 Dirà lo fel : « Audite, — gente, audite e ascoltate, 
« k'eu sun [Jesù] Cristo — ke tant ave' 'spetate 
« e 9à le merabilie — le vedrì per enango » — 

VII. 

[Al fin] dell'atro dì — sì a a enbandir la gente, 
ke de tuto l[o] mundu - a lui sera presente. 
40 [E 1'] Anticristo fel — farà li encantamenti 
si andarano dentro — [per fin] al mar fugente 
[e] sì l'à [a] turbar — per fin al fundamento. 



155 



[ke] levarà le unde — fin al seren luQent ; 
qnalò sera [nel mundo] — tal dol e tal tormento, 
45 ke a nul homo l'aida — de Deo vara nient, 
[e tutij cadrà, in terra — quasi morti e dolente. 

Vili. ' 

[Queste cinque] ensengne, — signor, avemo audite 
e le altre [miracule] — le qual farà '1 nimico. 

IX. 

El venirà e'I canpo, — la 9ent starà cum sego, 
50 de mil[e] millia diavoli — sera [lo canpo] pieno ; 
[e] fogo [sì] fervente — farà piover da 9elo, 
ke arderà le erbe — e li arbor e '1 frondeto. 

X. 

Poi [Anticristo] anango — farà la ter9a ensegna: 
[elo] farà fiorir — le arbor della selva 

[-ir] 

[e legno seco farà fiorir] 
55 [e] farà' [lo] fiorir in ma, 

mai no farà de pera pa. 
[E] dirà [i] Pagani : — « Questa è grande insegna » - 
La quarta ensegna [poi) — farà in co tal tenpesta: 
[el] venirà a li fiumi — e le aque ke [e' 9Ò] versa 
60 farà tornar indetro — con [cotale] tenpesta 

[c'alor] dirà li santi : — « Questa è falsa potestà » . 

XI. 

La quinta ensegna audite, — [segnori], se ve pla9e, 
ke farà 1' [Anticristo] — fel cui turminti malie: 
[elo] cun arte magica — farà sua voluntate 



156 

65 [e] tuti li demonii — [si veràj a encantare. 
El[o] vera a li morti — su li farà levare, 
e Ili demonii dentro — V inferno parlarae. 
Ki no sera ben saviu — e questo no savràe, 
[alor] pur dirà questi : — « | Li] morti è suscitàe » . 

70 Questi è 1' incantamenti — fera per no' enganare. 
E noi pregemo Deu — la dengna magestate 
ke de c»tal potestà — ne digni [re] guardare. 

XII. 

Enan9[o] ke sia queste -— cose e queste resone 
tute le aque [del mondo], — quante guarda lu sole, 
75 sì s'à a secar per [fogo ~ e] multu gran calor, 
[le] pinole e [le] grande — e Ili lagi e li flum; 
la terra [sì] s'à a avrire, — soto anderà 9ascun, 
[e] per [la] gran paura — clamarà ad alta vose : 

XIII. 

« [Oi] Deu, ke ne creasti, — miserere de nui, 
80 « n'aiuta en 'sto iudicio — ke no sean per dui, 

XIV. 

« ora n'aiuta, Deu, — §à sem toi creature. 
« Kar sir, tu ne creasti — a la toa figura » . 

XV. 

Ma e '1 fin[e] del seculo — quant ell'è firma, 
[si] tremerà li sancti — ke in paradiso stàe 
85 [e] li angeli del 9elu — grande paor avrae 
fora del paradiso — gà esser[ej cagàe. 



157 



XVI. 

La nostra sancta donna — matre del creator 
falor] si farà prego — a Deu nostro segnor: 
« Margè, bel sir[e] Deo, — de li toi pecator ! 
90 « No li dar tanta forga — k' el [lij faga paor : 

XVII. 

« li omini sun fragili — tosto sera perduti ; 
« [molti] crerà in lui — fagando le vertuti. 
Seguendo le so ale — quanti sera destruti ! » 

XVIII. 

De Franga vegnirà — un[o] grande segnor, 
95 [ke] del regnu de Talia — sera l' inperatore ; 
quel à [a] mantinir — a gloria et a ano re, 
cum' fege Karlo[magno] — lo justu enperatore. 
In Roma [elo] starà — cun alquanti baroni. 
De Ultramar [a lui] — verrà li enbassadori 
100 [con] se' millia e trecento — [falsi] encantatori. 
[Eli vera] a enbandir — la potestà malore. 
Cum sego avrà [gascun] — lor brevi e lor sermoni. 
Le soi albergarle — farà inpor Neronne 
[e 'lor] tendrà soi drappi — et i soi pavaioni. 

XIX. 

105 [Qente vera] de 'Talia — [de] Franga e Scalloni[a], 
[de] tuta [la] Galigia, — Bertagna e Borgodoni[a], 
[de la] terra Todesca, — [de] Engelterra e Scoti[a], 
d'ApuUia, [de] Gallabria, — [de] Qecillia e Guasconi[a], 
[d'] Ungaria e Sclavarìa, — [Vavaria] e Sansoni[a], 



158 

XX. 

110 pur viscovi et abatri, — duxi, marchisi e conti ; 
zunta sera la 9ente — de ogna regione. 
Facto lo 'rengo, en medio — [ap]par[irà] Nerone 
e sonarà le tube — e cornarà li come. 
Facto sera silenciu, — on'omo avrà tremore. 

XXI. 

115 [E] quando queste cause — sarà così ordenàe, 
unu de questi mes[sji — comen^arà a parlar. 
[Alor tuta] la cent — forte avrà a cridar. 
I fati de Antecristo — de dir non à a dotar. 
— « Audite, [bona] 9ente, — audite et ascoltate, 

120 « e forse intendere — li diti e le anbassate, 

« le qual[ij d'oltra mar — si ve son[o] mandate. 
« Pur semo nui e '1 tenpo -— ke tant' è anunciato 
« [ke] lo re Anticristo — in terra de' regnare. 
« Or l[o so regno] avemo — per summa veritàe ; 

125 « e le soi mirabilie — si è grande saneti tate. 
« Ma el ve manda salute — e al[egre9]e e pace 
« [e] mile libre d'auro — ve manda, se voi place, 
« e p[alii] e 'nvestisone — ed altre done fae ; 
« e poi [elo] ve manda — ke '1 si à acon9à 

130 « ke tuto [questo] mundo — [el] voi metere in pace, 

XXII. 

« Altre novelle magne — e [novelle] for9ore 

« si ve dirò k' a vui — manda '1 grande segnor: 

« ke unca voi venir — e mantinir aonor. 

« Elo voi ke le glesie — li alt[a]ri e li oratori 



159 



XXIII. 

135 « tute sean destrute — disperse e confundue ; 
« mai omo no se signe — e no adori cruce, 
« messe cantare mai — [omo] no faga plùe. 

XXIV. 

« Quale sera quel homo, — tant fos auso e bricon, 
< ke no vol[ia] li bandi — audir e 'sti sermon? 

XXV. 

140 « El perda[rà] la testa — [e] sen9' ogno tenore 

« arso sera e brusato — entro in camino ardor ». — 

XXVI. 

A[udendo] quisti diti — se leva '1 Papa Santo, 
[et] entro questo rengo — si parlar a' alquanto, 
[e] levar a' la voxe — e cridar a' ad alto: 

145 — « Oi, Re de 'Talia, a bona — ora [si] fus-tù franco, 
« ke [za] tuto l[o] mundu — si fo al to comando ! 
« Re, [lo] tu decretu — è ca9uto in bando, 
« ke lo [fel] Anticristo, — lo falso e '1 renegato, 
« [ora] te voi cumfundere — in morte e in gran dano, 

150 « [mandar] entro l' inferno — lao è '1 calor e '1 pianto, 
« ó è [le bisse] e i dragi — e li serpenti grandi, 
« ke vive in me' il fogo — si commo el pesse in acqua, 
« [e] ke manduca li omini — e fali gran damago. 

XXVII. 

« Le pene dello inferno — molto è merevelose, 
155 « no le po' [nul] on dir — tant' è periculose, 
« col cor noi pò pensar, — né dire cum la vose. 



160 



XXVIII. 



« Or te [re]guarda, Re, — ke no fsi'] castigato, 

« ke' queste sun le done — ke t' enpromete '1 falso, 

« r enimico de Deo, — ke tant' è anunciato. 

XXIX, 

160 « [EdJ ora [suj, baroni, — levati i Gonfaloni, 
« ferì entro [le zenti] — cum Deu benedi clone! 
« Fa9am[o la] bataia — alciremo [i felon], 
« si li taliem le teste — a questi enkantatori : 
« cotal [gratia] e salute — ne abia lor segnori 

165 « e n' [abia] tal servisiu — per le proferte done. 

« E nu oremo a Deu — , quel k' è [segnor del tron], 
« ke [senpre] ne defenda — de ma' de quei laron 
« [e si] de paradiso — [a nui] ne dea porcion, 
« con lui in requie eterna — possa regnar [ogn'on] » . — 

XXX. 

170 [Se leva] '1 re de 'Talia — ke ven bandir la gente : 
— « Segnor [baroni], audite — per Deu onnipotente. 
« Turbate sun le ete — finite sun le tenpe, 
« e mo la fin del mundo — nui l'aven en presente, 
« ké l'Anticristo fege — sol [falsi] bandement, 

175 « turbat'à [tuto] '1 mundo — per fine ad ocidente. 
« Ora, [segnor] baroni, — [vostr]e spate taiente 
« fagan tal colpi, — laudati seamo senpre » — 

XXXI. 

[Alor] li encantatori — qe s'avrà a turbare 
li demoni coi dragi — [comen§arà] a incantare. 
180 [Su] so [sì] gran tenpesta — con ven tu s'à a levare 



161 



ke le masone e li albori — si s'ànno a scarigare, 
e Ili homini se n'ano — fu9ir entro le nave 
[e] cun grande terrore — si à a barcar lo mar. 

xxxir. 

In[tro] Jerusalèm — starà lo re Anticristo 
185 [quale] li diexe regni — tenrà en so dextreto, 
si com[o] disse sancto — Joanne Evangelisto 
in [te] l'Apocalipso — in [f] uno [vero] scripto, 

XXXIII. 

ke tanti T à a adorar, — 1' in9enso por tara, 
ke '1 sia fiolo de Deu — [alor tuti] dirà. 

XXXIV. 

190 [Cossi] la ter9a parte — del mond sera desfata, 
entro l' inferno quisti — [tosto] sera portati. 
[Lora] lo re de 'Talia, — e' audirà questo male, 
per Deu temore si a' — a varcar el mare ; 
sera [tuta] con lui — la santa cristentàe. 

195 [Lo re] undeci millia — à confalon levati, 
per ogno confalon — tp^nti sera asenblàe, 
per numero sera — [trixento] millia armati ; 
ke per conbater sean — [tutor] bene adobàe. 
[Qascun] lo Pat renostro — comen9arà a cantare, 

200 Kyrie eleyson le vox[e] — al cel[o] levaràe ; 
cun grande procession — letame ordenaràe, 
kerà mer9è a Deu — ke li digni ai[dar] : 
— « Aiutane tu, Deu, — magnesta, dol9e par. 
« Noi semo [li] toi servi — tu [9à] ne ai plasmadi ; 

205 « [ancoi] faren bataia — [per] la tua fideltate. > — 

11 



162 



XXXV. 

Or savrà l'Antecristo — ke '1 nostro Re kavalca, 
no à a mandar per omini — ke li [conjduca arma; 
pur con incantaminti — farà sua arte magica. 

XXXVI. 

Anang ke sia la gunta — de questo [nostro] folco, 
210 si ca9erà una stella — de cel in mego [e']l mondo 
e si [lo] forarà — in fino a lo profondo; 
[tosto] tuta la terra — [ne| tremarà de'ntorno 
e tale fum oscuro — ensirà da quel fondo, 
ke '1 s'à a oscurare — pur l'universo mondo. 

XXXVII. 

215 [Et] entro quel fumor — para' tal bestia a nu , 
induta de tal fumo — con' no fu [mai] vegti.. 

XXXVIII. 

[La bestia] avrà lo cavo — con' auro precioso, 
le so' ale taiente — cun' ferro e cun' rasure, 
de dreo avrà le ìonge — e [sì] le grosse cue, 
220 denauQo avrà le bra9e — forti [ssime] et ague, 
[ke tanto] sera forte — cum eli' è segure 
e si del mal colore — sera quella figura. 

XXXIX. 

E quella avrà a pilar — li omini sì forte 
[ke bechi de li] olQèli — [para ke] s'avrà entorno^ 
225 e morderà si forte — k' al cor n' andrà li morsi. 

XL. 

Multe de queste bestie — sera de tal fa9on, 
[ke] nuli 'omo carnale — [ne] porà far rason. 



163 

XLI. 

[E] poi ne vignirà — una bestia tan forte, 
sera de sua statura — cun' uno grande monte 
230 e 'ntorno al cavo avrà — corni [sì] longi e forti, 
volger se fn'] à entorno, — e fìrirà tan forte, 
ke dentro da V inferno — se n'a a avri[r] le porte, 
[ej tuti li demonii — que sera[no] desot 
si vegneràfne] fora — per noi condur a mort. 

XLII. 

235 Una ne'n vignirà — [co]sì forte e [sì] dura, 
k' apena lo [vi] dico, — si grande n'ai paura. 
Uno draco[n] antico — ke sta en fiamma oscura 
[e] zò è Lucifér — maligna crea[turaj, 
a cui [tutij i demunii — [obedisse] e adora. 

240 E quel vinirà fora — cun' disse la seri tura, 
e '1 menerà[ne] nebla — sera de tal natura, 
ke '1 s'a[vrà a] oscurar — e [lo] sole e la luna 
[e ancor] tute le stelle — tremarà de paura, 
la terga part del mondo — cagerà en vai oscura. 

XLIII. 

245 Qualó sera la gent — tuta en tal tremor 

[ke] fin da lo principio — lo tal non fui ancor. 

XLIV. 

Vedrà lo re de' Talia — [sì] questo convenentre, 
[el s'a a recon]turbare — sera molto dolentre 
[e] fort [el a' a] clamare: — « Oi, Deu Omnipotente, 
250 « per fare [la] bataia — eu vini cum mea gente. 
« Or[a] tu r[ai] perduti — né ai Consilio niente. 



164 

XLV. 

Lo Santo Papa [tostoj — sì Tavrà a confortare: 
« Oi [re], oi bel messere — no te reconturbare, 
« ké des milia baroni — ancor ai de bemaQO : 

255 « per fare flaj bataia — à ['IJ confalon levato. 

« [E poi k']a' folco fato, — andaremo a quell'atro, 

« al [cruci] Antecristo — lo diavol Satanàs. 

« Fa^amo [la] bataia, — si li tale lo cavo. 

« Per Deu temor manemo — [firmi] en caritàe ! » — 

260 « Responderà lo Re: — « Oi, Deu, co' ben fui nato! 
« Bono [è lo] Consilio — e noi cossi facamo > . 

XLVI. 

[Alora el re] Antecristo — audirà 'sti sermone 
e muterà le tenpe — e leverà '1 turbore 
e meterà tempesta — cun vento e gran furore, 
265 qualó s'a[vrà] a mutar — [tute] le pensasone. 

XLVII. 

Vedrà lo Re [de Tallia] — ke non po' far berna90 

de [9ent] anbataià, — ké no è destinato, 

[e ke] de la sua vita — sera [mal] siderato. 

[E 'lora] a l'Antecristo — solo en[de] sera andato 

270 e in me9o [de] la corte — forte, avrà criato: 

— «[Oimai renuntio] al regno, — ké e 'tu lo Re Romano.» — 
[Cossi] lo nostro Re — bene avrà parlato 
en me9o de la corte — de l'Antecristo falso; 
anan9i [i conti] sui — el sera' vergun9ato. 

275 Oi Antecristo [falso], — comò tu e' exaitato! 
[E tu si e' nassuo] — de mortale peccato 



165 



XLVIII. 

e poi te fa' [ad]orar — co' fussi ['IJ Savatore. 
Oi, tu dolentre! Como — tu [sera] inganato! 
[Ké] entro [de] l' inferno — sera tu condenato; 
280 lo fondo de l' inferno — avrà tu solo caro 
et usque in eterno — starai tu en tal mercato 
ke meio te seràf — ke mai no fussi nato. 

XLIX. 

[Enlora el re] Antecristo — commen§arà a parlare ; 

[oi, li] s[o]i dul9i diti — komo eli è suave! 
285 « [Bel sire], oi re de Talia — tu è grand podestàe 

« e lo cavo del mundo — tu l'ai a le toi mane, 

« si corno [tu ai] Roma — quella magna citade. 

«Tu si m'à acasonato — e dito m'ai grand male. 

« Ancora non sai tu — ben [e] la ventate. 
290 «Ora guarda li morti — ke io ò su levati; 

« [e li] infirmi [e li] ceci — molto li ò ben curati, 

« [e li] pauperes nudi — vestii e consiliati. 

« [Ma] d'auro e d'argento — de palli e de pendati 

« [cascun] abia abundancia — ki me voi adorare, 
295 « [^ascun] abia [grande9a] — et ogna dignitate. 

« [E] queli che dirà — de no volerlo fare 

« [sì] perderà la testa ~ e sarà decolati. 

«A ti, [Sijre Romano, — no dirò nulo male; 

« [oimai] abii licencia — de far 90 ke te place > — 

L. 

300 Qualó se à a tornar — lo Re con grand dolore 
et al santo sepulcro — vera in oracione 
e a refuar lo regno — con tuto lo aonore ; 



166 



[e si] à a refuar — al Papa '1 Gonfalone 
[ej basarà la terra — e segnerase in erose 
305 e [lora] criarà — si forte ad alta vose 

[li] scloparà la sangue — per li ochi [de la fronte]. 

LI. 

— « Aiutane tu Deu, — [tui servi semo tutij, 
e si tu no n'aiute — tuti seren per9uti!» — 

LII. 

[Alor] domino Deu — lo insto patre nostro, 
310 ve9[ando] questo mundo — pericular en morte, 
farà venir [in terra] — Elia [con] Enoc. 
Quisti [si à] a saverare — la veritae dal torto 
[e mai] no l'à a lasare — per la morte del corpo. 
La fin del mundo posta — l'averemo noi tosto. 

LUI. 

315 Starà in Jerusalém — [li magni] Enoc e Elia, 
[quali] cun Antecristo — si pilarà la' brica ; 
[et a] tuta la gent — ke alò sera enbandia, 
[a] la cristianitate — et a la pagania, 
[alor] lo insto Enoc — si parlerà in tal guisa. 

LIV. 

320 Dirà Enoc : — « Audite ! — [La santa] cristentade 

« en tuto [quest]o mundo — entenda '1 meu parlare! 

« [Como] domino Deu — la insta poestae 

« fece '1 celo e la terra — e tuti no' plasmae, 

« [in prima '1] fece gli angeli — de [grande] claritae, 

325 « [li quali] più resplende — ke no fa '1 sol de stae. 
« Mai [pur] de Lucifér, -— ki lui audis parlare. 



167 

« si grand [è laj superbia, — ke l'a in cor de fare, 
« ke disse lo malignu: — « Ad alto m'ai levare 
« [et] en par[i] de Deu — si me farò clamare. 

330 « A quel imenso Dio — fme] vo' io fconjformare ; 
< li ordini de li Angeli — [za me devrà] aorare. 
« Li omini del mundo — e' li yoI inganare 
« si l'ai destringer [eoj — [a] far mia voluntae. 
« fLora] domino Deo, — lo insto poestàe, 

335 « ensi vedrà lo diavol — gran [de] furor levare, 
« gè tarai en terra — e su no l'à a levare. 

LV. 

« [Lo] fello calerà — en le pene infernor 
« la o è [lo fredo] e'I gelo — e nimio grand calor, 
« [la o è] gran tenpesta — e fumo con prudor, 
340 « [la o è] tuti i soiperbi — e [li] soi compagnón. 
« Qui st[ara]e [r]Antecristo — fel[lo] anbassatore, 
« lo malvasio sperguriu — e falso enganatore, 
« e i face mirabilie -— con' fosse encantatore. 

LVI. 

« [E cento] milia diaboli — tuti sera con lù; 
345 « [e per] tri anni e me§o — farà cotal virtù ; 

LVII. 

« e poi [si ne] mora — con Deu maledicione » — 
L' Antecristo aldirà — quisti [novi] sermoni, 
[si ne] sarà airato — con rabia e con furore ; 
et Elia [con] Enoc — [e li] soi conpagnone 
350 metre sì li farà — [tosto] en la sua presone 

[e] con grande martirio — [si] li à a metre in croce, 
farà' li far tal morte — con' fece '1 Salvatore, 



168 



Lvm. 



[et] in Jerusalém — in me[9o] la citàe 

[e tre noite] e tre dì — in erose i farà stare. 

355 [Lora lo re] Antecristo — con sue gente pagane 
in Monte Oli veto — farà grande mangiare, 
lora li donarà — [vairi], palli e 9endale 
e [sì] cavalli e mulli — e palafren d'anblare. 
Denante a lui s'avrà — tanta gente a adunare, 

360 za no è om carnale — ke i possa numerare, 
ke a lui [en] presente — farà si grand cantare 
[e] cun si alta voce, — la terra ne à a tremar. 
[Mai lo re] Antecristo — or li farà scultar 
[e poi] ad alta voce, — comen9arà a parlar: 

365 — « Audite, [bona] 9ente! — Audite et asscultàe ! 
« [Or è] venut 'el tenpo — ke en celo volo andar, 
« [perchè] la su en celo — si è una 9ente tal 
« dafine lo principio — senpre ne fo contar. 
« Eo [si ne] vo lasù, — si li n'ò a ca9ar, 

370 « e [tuti voi] in premio — lasù v'ai [a] menar; 
« per9ò [eo ve] lo dico, — no ve [de]sconfortae, 
« [ke] entro lo meo regno — e' ve voi' fare regnar ». 
La 9ente 1' à audir — molt se n'à a alegrar 
de le enpromissione — li sarà fate tal. 

375 [E tosto] r Antecristo — comen9arà a volar, 

|e] tendrà le [soe] bra9e, — ad alto s'a a levar. 

LIX. 

Ora [re]guarderà — [si] lo patre del celo 
[la] superbia si grande — ke mena l'aversero 
e '1 manderà un messo — [a santo] Michael; 
380 con spirito divino — elo l'aldirà ben. 



169 



LX. 

[Enoc] in [un] momento — sera mort et [olciso] 

. — li odi, la testa e '1 viso, 
e le cose e le brage — tato sera rostio 

385 e lo core del corpo — fora li sera ensito ; 

e [cento] milia diaboli — si li trarà [cun] sego. 
Li angeli levarà — uno si grande crido, 
da quando fu lo mondo — kotal non fu audito : 
Gloria [rendemo] a ti, — bel re de paradiso, 

390 ke [sì] ne ai guardato — de man dell' enimico. 

LXI. 

Vera a Jerusalém — Michel, in la citàe, 

la o[ve] li [doi] nostri — patarin Qaseràe. 

[E sì] Enoc et Elia — per nome [el] s' à a clamare, 

[e quand' è] mego dì — si li a a suscitare. 

395 Qualó tuto lo mondo — en pax [oimai] sera[e], 
[né gu]era [ne bataia] — nunca mai no seràe. 
[Alor] tuta la gent, — quanta sera creàa, 
s'ara a convertire — a Santa Cristentàe 
et anse [a re]pentire — de oni soi peccai, 

400 e in la fé de Cristo — sera ben bate^àe. 
Mort' è l'Anticristo, — tuta la terra à pas. 
Quaranta di lo mondo — [ancora] à da brastar, 
mo quanto [sera] pini — nuli 'omo sa acertar, 
mai sol [domino] Deu — la su[m]a magestae. 

405 Conpliti [omai] li diti — ke Deu [à] ordenae, 
questo mondo terren — [tuto] se de' desfar. 
[Lo] Creatore farà — [alor] soa volontae, 
si comò a leger s'a — ne la devinitae. 



170 



LXII. 

Per me9o [de] lo celo — lo sol si à a pausar, 
410 al so callor lo mundo — se [ar]à a brasar, 
e [sol] in un momento — si s'a a devorar 
tuti li munti, [i fiumi] — e le aque e le mar. 
Altresì comò cera — la terra se à a scolar. 

LXIII. 

Starà li angeli in celo — suvra un alto monte 
415 e con le tube s'anno — a sonar tanto fort, 
ke '1 [si ne] tremarà — l'abisso infernor. 

LXIV. 

[Alor] tuti li morti — ke fo en questa luce 
[si à] a susitar — al son de queste tube, 
tuti con [la soa] carne — depiena de vertute. 

LXV. 

420 Qualó avrà conpliti — le so enpromession 

vera del cel si a star — suvra uno grande mont: 

LXVI. 

li ordini [de'] santi — si a' a star con lù, 
elo [li] menerà — de[lj cel en sua vertù. 

LXVII. 



[Co|sì à a finir lo piato 
425 del insto e '1 peccatore 

. [ore] 
Quel ke sera da senestra 
ke no fo digno de [la] destra 



171 



ma quel sera dal destro lato, 

430 9ascon sera encoronato; 

[si con lo sol devrà lusir]. 
Lo (pat)re de [gloria] a lor à dir: 
— « Vui benedicti a mi vini, 
« k'el meo regnu possediri, 

435 « ke v'è' presta e preparato, 

« si corno a vui è nunciato. 
« Se vigni a vui pover e nudo, 
«> [con legrega] fui regevuo. 
« Mo vignuta è la [sasone] 

440 « ke vo' n'ari guafda]rdon[e], 

« ke mego en cel nel regno meo 
« [senpre stari davan9 lo patre meo] 
« en la gloria senpiternal ». — 
Ke Deu si ne la dia 

445 ke n'a forga e balia. 



Amen. 



Annotazioni criticlie e filologiche. 



Non voglio né posso in queste brevissime note ana- 
litiche illustrare compiutamente la mia ricostruzione si- 
stematica del testo àéìV Escuriale, 

Nessun mutamento è stato compiuto senza una ben 
meditata ponderazione. Alcune correzioni risulteranno 
evidenti senza che io abbia bisogno di giustificarle, altre 
sono suggerite dalla ragione metrica e dalla rima. La 
riproduzione diplomatica del codice escurialense mi 
dispensa dal registrarne le varianti. 

In queste note il primo numero (romano) indica la 
lassa 5 il secondo (arabico) indica il verso. 

Al restauro della forma originale del testo natural- 
mente ho fatto precedere la ricostruzione della fonetica, 
della morfologia, della sintassi e della metrica 
del rimatore. Quest'opera mi è riuscita particolarmente 
ardua, perchè la lingua è inquinata e perturbata dal- 
l'opera di almeno due copisti estranei al territorio cre- 
monese, e cioè un copista veronese, e un copista 
umbro, che introdusse nel testo lombardo forme cen- 
tro-meridionali in gran copia. 

Anche l'alessandrino delle prime 66 lasse è assai 
guasto. Pili che una trascrizione, il testo dell' Escuriale 
deve considerarsi una versione in prosa, dove le rime e 
le assonanze sono perdute, l'ordine legittimo degli emi- 



174 

sticM è disciolto, la linea della poesia è cancellata o 
obliterata (1). 

I. 1 — Il cod. ha melloj io lo sostituisco con ;pm, che è 
coerente alla rima cherubim del v. 4 e all'assonanza dell'in- 
tera lassa (in-* tonico). Che la pianta sotto la quale dormiva 
Uguccione fosse proprio un pino e non un melo, si può de- 
sumere anche dall'analogia col passo parallelo del Detto dei 
villani di Matazone da Caligano (ed. P. Meyer): 

154 in un zardin entray 
guardai per lo zardin, 
soto un verde pin. 



I. 6 — Muto nu audimo in [alora ai'] audito, perchè è ben 
chiara fin dal primo verso la solitudine dell'autore. 

II, 10-15 — La correzione dei due versi è indicata dai luoghi 
paralleli di Uguccione da Lodi (525): De mi ahie ^ndul- 
gencia; (657) de mi, signor, ahie remision, 

II. 11 — Il compimento del verso è reso certissimo dalla 
ripetizione che se ne ha nel v. 17, nella lassa seguente, 

II. 12 — Nel cod.: «far la so vertue»^ ma l'assonanza 
{ìu-ó) imponendo una finale -óre o -òn, correggo: so traison. 

III. 20 — Bassator non dà senso ed urta contro l'assonanza 
della lassa; e perciò lo sostituisco con blasfemato, di cui non 
è difficile sorprendere la corruzione paleografica. L'errore è 
sorto per attrazione del v. 341 : a Qui starae l' Antecristo, fel 
anbassatore ». 

III. 21 — Serai è suggerito dal parallelismo con starai, del 
verso 23. 

III. 22 — Goroza dev'essere compiuto in Coroga\im^ secondo 



(1) Esprimo la mia riconoscenza al Prof, E. G. Parodi, al quale 
debbo alcune correzioni al testo, delle piti felici tra quelle qui sotto 
indicate. 



175 

il testo di Adsone che qui è parafrasato (ed. Sackur, 
p. 108). 

III. 24 — Starà plano comotro. Inverto per obbedienza al- 
l'assonanza di questa lassa {ci tonica): co^ morto starà plano 
e interpreto: d Starai quieto {= plano) come morto ». 

III. 25 — Il pensiero di questo verso è antitetico a quello 
del precedente e perciò muto il semplice he in e pò (o forse 
ma po^). Nel secondo emistichio muto per lu in per te perchè 
Paposti'ofe all'Anticristo non è ancora compiuta. 

V. 29. — Il complemento di questo verso è suggerito dal 
passo del Libro di Uguccione: 

508 Enfin q'eu fui vigoros e aidente 
eu no tegnia la via d'oriente, 
encontra ti fui fer e conbatente. 

Aidente è il toscano aitante, 

VI. 37 — Sposto ^a dal secondo al primo emistichio per 
ridare a ciascuno la sua propria misura. 

VII. 41 — È sottinteso: che. Il cod. ha f niente, come al- 
trove (117) iente; ma la forma primitiva lombarda è fngente, 
come gente (al v. 49 e 119). 

VII. 45 — Il testo: « Ke deo aiù — nul hon dirà nient ». 
Interpreto: « che l'aiuto di Dio a nessun uomo gioverà nulla ». 

Vili. 47-48 — Il numero cinque è reso certo dall'enume- 
razione che segue nelle lasse seguenti (cfr. v. 58-62). Questa 
lassa costituisce uno dei passi più aspri del poema. Miracule 
suppongo in luogo dell' aucilennun del codice, colla forma pe- 
rugina del plurale (cfr. p. 126) peculiare a Marabottino. 

X. 60 — Interpreto, a e le acque che essi versano [in giù], 
farà ritornare indietro verso la fonte », secondo il testo del 
primo poemetto dell' Anticristo inserito nell' Istoria di Uguc- 
cione da Lodi (v. 1317): 

L'aqua qe sol en 90S andar 
el farà en sus tornar. 

Mi pare necessario correggere intro in : in[de]ti'0. 



176 

Il testo deìVUpistola ad Gerbergam è insolitamente laconico: 
d faciet acquariira cursum et ordinem converti » (p. 108)j 
ma il testo deW Antechrist franco-veneto forse può rischiarare 
questo passo, che è assai oscuro : 

322 Et li fiumi seront veu 

que autresl seront cren, 

puis comenceront a braire, 

tei cri e tei noise a faire.... 

toirneront a lor canals, 

descendront si vis à vals 

que neus veoir ne les pora.... 
324 Et puis après retorneront 

si con il sont. 

La X lassa è costituita da sette versi alessandrini: tia il 
secondo e il terzo di essi sono inseriti due novenari, ai quali 
è indispensabile aggiungerne un terzo (v. 55-57) perchè il 
senso sia compiuto. Questi tre novenari — come ho avvertito 
(p. 77) — appartengono a quel piccolo abbozzo di poema sul- 
l' Anticristo che Uguccione ha inserito nella sua operetta gio- 
vanile intitolata l' Isvoria: 

1319 fogo farà da ciel venir 

e legno seco farà fiorir 

e faralo fiorir en man 
1322 mai no farà de piera pan. 

Interpreto : a Egli farà fiorire gli alberi della selva — e farà 
fiorire il legno inaridito — e lo farà fiorire tra le sue mani — 
mai non farà di pietra pane». In quest'ultimo noverarlo è 
parafrasato un versetto del discorso della montagna (JEJvang, 
di S. Matteo VII, 9) e del Vangelo di S. Luca, XI, 11: «Aut 
quis ex vobis est homo quem si petierit filius suus panem, 
numquid lapidem porriget ei»? L'Anticristo sarà come un 
buon padre e non porgerà mai pietra invece di pane, di pie- 
tra facendo pane. 



177 

XI. 63 — Qui e in molti altri versi manca il nome delP An- 
ticristo, la cui omissione si spiega col fatto che nei mss. esso 
era segnato mediante la semplice sigla; A. 

XI. 70 — Sottinteso: [che] farà. Il testo del cod. sovrab- 
bonda. 

XII. 75 — Inverto la disposizione dei v. 75-76 per riacco- 
stare le due rime: Jlumi-gascum» Come ho osservato a p. 104, 
nelP interno di ciascuna lassa assonanzata i versi hanno la ten- 
denza a raggrupparsi in distici mediante la rima esatta. Qascun 
è imposto dalla rima e dalla misura del verso in luogo del 
li omini che è nel codice. 

XIII. 80 — Per restituire la rima ho dovuto anteporre il 
V. 80, che nel testo è V 82. «^ 

XIV. 82 — Il testo Karser. 

XV. 85 — Restituisco qui e nel v. 90 paor in luogo di 
paura perchè la rima della Lassa XVI (creator, segnor, pecator) 
impone la finale in -or. Intorno a Paor v. il lessico del 
Tobler. 

XVII. 92 — Sottint.: alPAnticristo. Il complemento del 
verso è indicato dal verso parallelo di Uguccione (1266): 

Molti sera qe li a crer. 

XVII. 94 — Il cod. seguirà le so ale quanti sera strotuti. 

XVIII. 101 — Questo verso è nel codice l'ultimo della lassa, 
ma la sua stessa rima lo richiama al suo posto, dopo la serie 
dei versi finienti in-or. 

XIX. 105 — La correzione è accertata dal v. Ili : Zunta 
sera la zente ecc. 

XIX. 113 — Bisogna invertire gli emistichi per osservanza 
alla rima. 

XX. 110 — Il cod. conti, marchisi e dux, ma l'assonanza 
in ó richiede l'inversione: duxi, marchisi e conti. 

XXI. 117 — Il cod. jente secondo l'uso umbro-marchigiano 
del copista, mentre altrove (v. Ili ecc.) traspare la forma re- 

12 



178 

gelare gente dell'originale lombardo. Credo che questo verso 
sia fuori di posto, e debba far seguito al bando del messo. 
XXI. 127 — Ometto il v. incompiuto : a Gracia alla sua 
bona voluntate j>, che è intiuso nella serie dei versi e nel 
corso del pensiero. 

XXI. 129 — Il cod. à contato. 

XXII. 134 — Nel codice i vv. di questa e della lassa se- 
guente sono tutti fuori di posto j e cioè : 136 + 134 + 135 + 137. 

XXIV. 138 — Cfr. BONVESiN da Riva, La Scrittura Mossa 
(ed. Biadene, p. 48), 431: 

Non è homo al mondo, si ardito ne si indurato, 
Ke non dovesse essere tuto stramito e amaricato.... 

XXIV. 139 — Nel cod. voi audir li bandi, 

XXV. 140 — Sene' ogno tenore, cioè senza alcun indugio 
(cfr. TOBLER, Ugugon — s. v.). 

XXV. 141 — Il cod.: in camnino. È la traduzione della 
frase Biblica (Matth. XIII, 42) a et mittent eos in caminum 
ignis ardentis ». 

XXVII. 156 — Il testo cum le hoce (con le bocche), ma 
la rima impone: vose. Questi tre versi' — come s'è visto 
(p. 76) — sono ripetuti anche nel Lihro di UaugoN (97-99). 

XXIX — Le assonanze di questa lassa sono guaste nel 
testo j il mio lavoro di restauro è stato reso meno aspro dal 
confronto della lassa 197-234 di Ugu§on, che ha il mede- 
simo giuoco di rime. 

Ho spostato il secondo membro del v. 161 al v. 162 per 
riunire i due concetti àeW uccidere e del tagliare j e quanto al- 
l'assonanza ecco i miei mutamenti: 

(163) 8i li algiremo tuti = algiremo i felon, 

(166) Deu quel W è verasia luse in quel W è segnor del tron. 
(cfr. Ugugon, v. 233: Verasio Deu j^are, segnor del tran). 

(169) Bequie eterna possam regnar con lui z= con lui in requie 
eterna possa regnar ogn[on. 



179 

XXX. 171 — Il complemento [baroni] è indicato dal v. 176 
[segnar] baroni; i due versi si rischiarono e si compiono re- 
ciprocamente. 

XXX. 173 — [E mo] nel codice è unito a aven-mo del se- 
condo membro. 

XXX. 177 — Le vostre spade taglienti facciano tali colpi 
che noi ne siamo sempre lodati. 

XXXI — Per restituire le assonanze muto nel v. 178 que 
sera turbati in que s^avrà a turbare (secondo la perifrasi del 
futuro costante nei testi lombardi) e inverto i due membri 
del V. 179. 

XXXIII — Occorre invertire Pordine degli emistichi qual' è 
nel codice, dove s'ànno le assonanze inammissibili {incenso :Deu). 

XXXIV, 191 — Anche qui bisogna invertire la disposizione 
delle due parti delF alessandrino e mutare perguti in portati, 

XXXIV. 192 — Si cfr. il v. 74 di UGU90N De Laodho: 
Molt tost è portaa entro Pinfern ardent. 

XXXIII. 193 — Sebbene abarcar in questo poemetto e nelle 
Tre Scritture di Bonvesin (664-692) abbia il senso ben lim- 
pido di calmarCj ritirarsi, credo che qui debba essere corretto 
in barcar, È evidente che il Re d^ Italia vuole compiere una 
crociata e, partendo da Roma, vuole — per mare — raggiun- 
gere Gerusalemme (v. 184), dove PAnticristo si è proclamato 
indebitamente Signore. 

XXXIV. 194 — Cristianitate eccede la misura; per restaurarla 
bisogna leggere Oristentade secondo il v. 336 di Ugu^on: 

se volè mantegnir la santa cristentadhe. 

XXXIV. 197 — Il testo da il numero di 11000 gonfaloni 
e di 20.000 uomini, il che non è credibile, perchè ogni gon- 
falone non avrebbe dietro di sé neppure due soldati. Certo 
in luogo delle decine va collocato un numero significante cen- 
tinaia; suppongo eco, M. invece di XX. M, il che darebbe 
un centinaio di armati per ogni gonfalone. 



180 

XXXIV. 204 — Il cod. : tu ne plasmasti, ma il perfetto non 
è usato che rarissimamente ed è smentito dall'assonanza. 

XXXVI — Nei cod. le assonanze sono alterate: FolcOy 
mundo, profundo, entorno, fundo, mundo. Intorno a folco cfr. 
il Glossario. 

XXXVII. — La gravità del guasto si avverte nella triplice 
ripetizione di tale e dalla divergenza delle assonanze: bestiolu: 
veguto. Risolvo hestiolu in: bestia a nu^ (a noi). 

XXXVII. 220-221 — Inverto l'ordine di questi versi per- 
chè la forza deve essere attribuita alle braccia e non alle code. 
E la necessità dell' inversione è provata dal giuoco stesso 
delle rime, che segue a coppie [precioso: rasuro, cue: ague, 
segura: figura), pur rimanendo le coppie entro il quadro più 
ampio dell'assonanza in -il della lassa. Cfr. quanta s' è os- 
servato a p. 104. 

XXXVIII. 222 — Inverto le due parti del verso e muto 
quelle figure in quella figura perchè una sola è la bestia apo- 
calittica che esce dal fumo (v. 215 e sgg.). 

XXXIX — Anche questa lassa è nel testo così profonda- 
mente guasta che per rimediare occorrono mezzi radicali. In- 
terpreto: a e pelerà così forte gli uomini, che loro parrà che 
si aprano intorno becchi di uccelli rapaci ». 

XL — Multitudene non può fare assonanza con rason, e per- 
ciò divido la parola e colloco « multe » nella prima parte del 
verso e supplisco coli 'emistichio di Ugugon de Laodho (v. 674) : 
« sera de tal fagon ». 

XLI. 230 — La materia di questo verso è stemperata nel 
codice in due versi per evidente distrazione dell' uno o dell'al- 
tro trascrittore. 

XLII. 241 — Cioè : [che] sera di tal natura. 

XLIII. 246 — Il ms. da fin principiu. Intendo : fin dal prin- 
cipio (= del mondo). 

XLIV. 248 ~ Bisogna mutare turbar in reconturbar non 



181 

soltanto per ragione metrica, ma anclie per coerenza col v. 253 : 
« non te reconturbare ». 

XLV. 254 — La correzione debernai in de hernago è neces- 
saria perchè s'abbia il richiamo al v. 266. 

XLV. 256 — j& poi Ice folco a' fato... Questa espressione 
corrisponde all'altra del v. 210 Anang Ice sia la cunta de que- 
sto nostro folco. 

Folco è il tedesco volk, franco fuìk : truppa, esercito, mol- 
titudine, ed è comune al provenzale {fole) e al francese (fouc) al 
pari che ai dialetti lombardi {fole com.) e piemontesi; cfr. 
Meyer-Luebke, Bom. Et. Wh. 3559; Gr. Bertoni, 1/ elemento 
germanico della lingua italiana, Genova, 1914, p. 119. 

XLV. 257 ~ Satanàs = Lucifér (v. 238). 

XLVII. 267 — Abataiao è in Bonvesin; enbataiadho in Ugo- 
5on de Laodho (v. 364) nel senso di o: armato per la guerra ». 

XLVII. 268 — Sarebbe facile la correzione : a 8^ avrà a con- 
siderare », che renderebbe assai bene il senso del discorso. Ma 
non oso toccare il considerato del testo (che paleograficamente è 
ben limpido), perchè esso fa il paio con quello del Libro (358): 

Nisun pover de Deu ne avogol ne sidhradlio. 

Mal-sidrado è sinonimo dei più comuni malfeao omal-astrudo 
(cfr. A. Mdssafia, Darstellung der Altmailàndischen Mundart 
nach Bonvensins Schriften, Sitzungsberichte der Phil. hist. CI. 
der Akad. derWissenschafteu, Wien, 1868, LIX, p. 40; A. Mus- 
SAFiA, Monum. antichi di dialetti ital. p. 111). 

XLVII. 271 — Non saprei come altrimenti supplire al gua- 
sto che è nel codice : « oni hon al rego » ; d'altronde il senso 
è certissimo perchè il concetto ne viene ribadito e ripetuto 
nel V. 302 : e refuar lo regno con tuto lo suo onore. 

XLVII. 273 — Muto entro la in : en mego della corte, per- 
chè il verso deve richiamare il v. 270. Al v. 274 cambio 
avra^ in sera, perchè la vergogna ricade evidentemente sul 
Re e non sull'Anticristo. 



182 ' 

XLVII. 276 — Il complemento del verso è suggerito dai 
V. 18-21. 

XLVIII. 280 — Cfr. Ugu^on (v. 1366) : 

sera metud al fondo 
del pessimo fogo infernal. 

XLVIII. 282 — Fusse non è metricamente ammissibile ; il 
il verso torna restituendo il verbo foneticamente e morfolo- 
gicamente più corretto: sera/. Cfr. A. Tobler, Das Buch 
des UguQon, §. 53. 

XLIX. 285 — Il complemento Bel sire è suggerito dall' at- 
teggiamento adulatorio e suasivo del discorso {oi li sui dulgi 
diti Gom^ eV è suave!) e dal riscontro col v. 90: Bel air, Beo, 

XLIX. 288 — Acasonar = cercar pretesto di guerra. Cason 
è — in questo senso — parola tecnica nelP uso lombardo. G. 
Patecchio {Spianamento dei Proverbi di Salomone) dice (117) ; 

Lao e Pomo soperbio se trova ogna tendone: 
mai l'umel sta cortese e non varda casone. 

E altrove (347): a l'uomo che è stanco di un suo amico, 
cerca pretesti per attaccar briga: 

cui recres un amigo sig va trovand casone. 

Oaxonoso ziz Puomo litigióso j cfr. G. Flechia, Anno- 
tazioni Genovesi néìVArch. glott. Vili, 337. 

XLIX. 290 — Cfr. Pietro da Barsegapé, Sermone (ed. 
Keller), 778: 

Li morti de terra su levo 

visibelmcinte li suscitò, 

storti, 9opi e anche sidrae, 

de lor gè vene grand pietas, 

infirmi, cegi e co tal §ente 

el gi sanava incontinente. 

XLIX. 293 — Nel testo i vv. hanno questa disposizione : 
295-1-293-1-294 e nel v. 295 si ha invece di grandega, abun- 



183 

dancia come nel precedente. Il riassetto è indicato delle serie 
delle rime. 

L. 304-305 — La rima vose - erose è nel distico di UGU90N, 
1751-1752. 

L. 306 — Il cod. : a per'mego i odi », ma oculi non può 
fare assonanza con vóce. 

LI. 307 — Il secondo membro del verso è metricamente 
manchevole e inammissibile all'assonanza; per rimediare al 
guasto mi sono valso del v. 81, che risponde al medesimo 
atteggiamento di pensiero: a §à sem toi creature ». 

LII. 313 — Savere è una ben chiara scorciatura di a sa- 
ve[rrtjre » (separare) con metatesi assai frequente. 

LII. 314 — Nel cod. questo verso è il n. 312 j ma Mia et 
Enoc non possono essere separati dal pronome quisti che li 
richiama immediatamente. E il fosco accenno alla fine del 
mondo è destinato a chiudere la lassa. 

LUI. 315 — Anche qui il complemento del verso è impo- 
sto dal testo stesso del monaco Adsonk {De ortu et tempore 
Anticristi) che viene parafrasato: a duo magni prophetae mit- 
tentur in mundum Enoch scilicet et Elia » (Ed. Sackur, 
p. 111-112). 

LIV. 320 — Nel codice i vv. hanno questa disposizione, 
manifestamente scompaginata : 322-323-320-321. 

LUI. 331 — Cod. : ke me farai adorare. 

LIV. 330 — Muto Pevidente errore firmare in conformare. 

LIV. 336 — Nel testo: yeteral gue en terra poi non levaro sui, 

LV. 337 — Sicura forma di genitivo, che si trova anche in 
UGU90N (Libro, 31): 

Tu me defende de le pene infernor. 

LV. 338 — Lave è trascrizione scorretta dell'originario lao è : 
cfr. Ugogon (v. 463) lao el ^; (v. 432) lao e\V è. 

LV. 342 — Fel è ripetizione grafica: lo sostituisco con malvasOf 
che è piti coiTotto anche dal punto di vista della metrica. 

LVI. 345 — Cfr. Adso, De ortu et tempore Antichristi, ed. 



184 

Sackur, p. 109: « Haec... tribulatio tribus aunis manebit 
in mundo et dimidio ». 

LVIII. 355 j 356 — Nel cod. pagana gente e mangar grande^ 
che l'assonanza impone di invertire. 

LIX. 380 — Inverto i due membri, e aggiungo ben per avere 
l'assonanza con Michel. 

LX. 381 — La rifilatura della pergamena compiuta dal le- 
gatore ci La sottratto uno o due versi. Ma si comprende bene 
che materia di essi doveva essere il supplizio di Enoch e di Elia. 

LX. 383 — Cfr. UgU9on (696): qe li percoe li olgi — el 
viso el menton. 

LX. 384 — La parola finale si legge assai malamente, ed 
io ho molto esitato prima di introdurre quell'energico rostioj 
che pure la rima imponeva. Ma il realismo di Ugugon, di Gia- 
comino da Verona e di Bonvesin da Elva — quando si tratta 
di operazioni diaboliche — non conosce i limiti di alcuna di- 
screzione. Il martirio di Enoch e di Elia pare ricamato sulla 
scena infernale, che è nel Libro (479) : 

Altresì arderla comò cera colàa 

quand è molto destruta, rostia e brusàa. 

LX. 386 — Il testo in luogo di cento milia ha soltanto milli, 
ma il numero di cento millia è quello che Ugucon preferisce 
quando accenna a una moltitudine diabolica. Sego ha un é 
così stretto che può rimare colle altre assonanze in i -, lo stesso 
fenomeno si ha in Girardo Pateg, Proverbi di Salomone, 382 
(amigo : sego). 

LX. 387 — Uno tal cridor è coerente al linguaggio diUguc- 
cione, ma troppo diverge dall'assonanza in i. 

LX. 388 — Cod. Da Ica fu, 

LXI. 391 — A Jerusalem.... in la citde=. cfr. Pietro da 
Baksegapé, Sermone, ed. Keller, 689 j in JBetlileem in 
cita, e al V. 1107 : 

or ve n'andà 
in lerusalém quela cita. 



185 

LXI. 396 e 401 — Cfr. Li'Aìitécrìst franco-veneto delPAr- 
seuale (250-51): 

Par tot lo mond sera paia 
ne la guerre ne sera mais. 

LXI. 398 — Cfr. la nota al v. 194. 

LXI. 402 — Brastar con r epentetico come crurar = cu- 
rare (v. 291) per errore giafico. 

LXI. 408 — Il cod. 86 lege, ma il verso è difettivo j cor- 
reggo : <r a leggers'a' ». Il secondo emistichio è identico al 
V. 576 del Libro di Uguccione da Lodi. 

LXII. 413 — L' immagine della cera è una delle metafore 
favorite di Uguccione ', essa ritorna anche nel Libro (479) : 

que se tuta la mar entro fos inviaa 
altresì arderla comò cera colà a. 

Ometto le parole che seguono nel cod. a scolar perchè esse 
ripetono il v. 410. 

LXIII. 414 — La correzione {ad altitudine = sovra un alto 
monte) è indicata dal v. 421 che risponde a questo, e chiude 
il pensiero : vera del cielo a star — sovi^a un grand monte. 

LXIII. 415 — Non avendo riconosciuto Passonanza in -óf 
il copista del codice ha invertite le due parti del verso. 

LXIII. 416 — Al solito, il copista non ha compreso il ge- 
nitivo infernor e P ha mutato in inferior (cfr. il v. 337). 

LXIV. 418 — Il cod. : de queste voce, dove voce è stato sug- 
gerito dalla parola luce finale del verso precedente. Mi pare 
più facilmente ammissibile il richiamo delle tube del v. 415 
che non l'oscuramento di voce in vuce. 

LXVI. 422 — Cfr. UGugoN, v. 1839 : 

vo senpre mai saré con lui. 

LXVII — Manca il racconto del Plato cioè della disputa 
del Giusto e del Peccatore, che è annunciata dal distico 
riassuntivo 424-425, che pare dovesse costituirne la chiusa. 

LXVII. 427 — Il distico è reso nel ms. in tal forma che 



186 

riesce irriconoscibile; ma nel cap. (p. 79) ho dimostrato che 
esso è identico al distico 1769-70 dell'istoria. 

LXVII. 435 — Tutto questo tratto è incredibilmecte gua- 
sto nel testo. Si rimedia col confronto del cod. Hamiltoa. 

LXVII. 441 — Il verso nel cod. dice : Ice mego en cellu ve 
farà regnar. La correzione desumo dal Sermone di Pietro da 
Barsegapé, dal quale tolgo anche il secondo verso del dfstico 
(442), che manca nel nostro testo: 

2270 Cum esso mego in lo regno meo 

senpre stari davanzo lo patre meo. 

LXVII. 443 — Cfr. Pietro da Barsegapé, 2427 : 

azó ke in la gloria le sian poste 
zoé la sancta eternale. 

LXVII. 444 — Cfr. Pietro da Barsegapé, 2409 : 

Clamemo mer§é e pietà 
a quela sancta podhestà 
ke tuto lo mundo a in bailia 
e perpetuale segnoria ! 

LXVII. 444-445 — È una parafrasi della formula del sa- 
luto proprio degli Eretici. Prima di lavarsi le mani, di spez- 
zare il pane e di bere il vino gli Eretici solevano dire : Deus 
nos benedicat et dueat nos ad bonam flnem (Doellinger, Bei- 
traege, II, 225). I Valdesi dicevano: Aquel Senher qui ano no 
mentis ni no falhit nos amene a bona fi. 



Glossario. 



ahatri, abati, 111. 

acasonarj provocare, 288; cfr. nel Paté echio, Splanamento 
11^-347, casone^ provocazione, pretesto per attaccare briga: 
a cui recres un amigo sig va trovand casone ». NelPant. 
gen. caxonoso = attaccabrighe (cfr. Gr. Flechia, Annoi, 
Oenov. in Archivio GloUoL, VITI, 337). 

airato, adirato, 348. 

albergarla, albergo, 103. È anche in Bonvesin e nel Bescapé, 
215-2397. a Albergar iae, avverte il Muratori {E. 1. 8.: Ot- 
tone Morena da Lodi, voi. VI, col. 970), idem sunt 
ac mansionaticum, gistum, procuratio idest ]\is divertendi 
in domum vassalli et in ea hospitandi ». li^albergeria 
era insomma il diritto feudale di alloggio j cfr. Atti del 
Comune di Milano cit., 10, 40, 117, 169. 

algir, uccidere, 162. 

aldire, udire, 347. 

alò, subito, (vedi qualò); è consueto in Uguccione da Lodi 
(v. TOBLER, p. 31) e nella Leggenda di S. Caterina (cfr. 
A. Mdssafia, Zur Katharinenlegende, Vienna, 1874, nei 
Bendiconti delVAcead. delle Scienze di Vienna, LXXV, 227). 

anor, onore, 96. 

aorar, adorare, 277, 331. 

atro, altro, 38-256. 

aversero, P avversario, cioè il Diavolo, 378; cfv. Misceli, Caix- 
Canello, p. 74. Nel modon. Arvsari = Satana j cfr. Archivio 
Olott, II, 18-19. 

[avisare], ravvisare, I, 2. 

barcar, calmare, decrescere 183. Si dice delle acque del mare; 
cfr. in Bonvesin, Tre scritture 664-692: abaloare. 



188 



hello, caro, 89-285. È uno schietto francesismo == a. fr. heaus ; 
e infatti si trova accoppiato con sire = bel sire, 

bernagOf baronaggio, 254-266. 

Bertagna, Brettagna, 106. 

Borgodonia, Borgogna, 106. 

br astar, durare, 402. 

brica, tenzone, 316. Ant. lomb.: brega {Arch. Glott» XII. 392). 

bricon, matto, 138. Anche in Uguccione, 664. Nel Griso- 
stomo: bricaldo = hu&one {Arch. Olottol. XII. 392). 

causa, cosa 116. 

compagnon, compagno 340-349. 

convenentre, situazione, condizione 247. In Uguccione 79, 
convignenti, È Pant. fr. covenant-, cfr. A. Seifert, Glossar 
su den Gedichten des Bonvesin da Biva, 20. 

cosa, coscia, 384. 

entrare, curare, 291. 

cua, coda, 219 j cfr. Bonvesin: eoa {Tre scritture 268). 

damago, danno, 153 j nel Grisostomo: dalmagio {Arch. 
Gioii. XII, 398) } nell'a. genov. darmaio {Arch. Gioii. 
VIEI, 344). 

denango, innanzi, 220. 

desot, sotto, 233. 

destringere, costringere, 333. 

deversar, 59 = cfr. versare. 

dextreto, dominio, 185. In Bonvesin Tre scritture (304) e 
nelle Cronache delti Imper. {Arch. Gloit. Ili, 279) de- 
streto = prigione, e così destr echio nel Grisostomo 
{Arch. Glott. Xll, 400). 

enango, innanzi, 37 = enang, 73, anang, 209, anango 53 ; cfr, 
MussAPiA, Mon. Antichi, 120. 

enbatajar, armare, 267; cfr. Uguccione 365: d e tor enba- 
tajade ». 

JEngelterra, Inghilterra, 107. 

enimico, il diavolo, 159, 390; cfr. Arch. Glott. XIV. 209. 



189 



ensegna, segno, 47, 58, 57, 62 j Bonvesin, Tre Seritt. 64 j 
Grisostomo {Arch, Olott, XII, 409): ensegnia. 

ensi, così, 335. Il lombardo antico e moderno : insì {Arch. 
Gioii, XII, 409). 

ensir, uscire, 213 j Bonvesin, Tre Scriti. 49 e passim : insir, Bar- 
segapé 325, 1555 ecc., gen. ensir {Arch. Gioii. VIII. 351). 

envesiisone, investitura, 128. 

èia, età (16 ecc.) da aevitas epoca, friul. yeie engad. etia; cfr. 
Mkyek-Lììbke, Bom. M. Wh. 251 5 Arch. Gioii. XVI, 
183. n. 

falso, il diavolo, 159. Il Poema conosce tutta una serie di 
espressioni perifrastiche di questo genere: Vaversero 
(378), Venimico (159), lo fèllo (26), lo maligno (328). Il 
dialetto ticin. ha falsinimic, cfr. Arch. Gioii. XIV, 209. 

fel, il diavolo, 26, 337. 

folco, esercito, 209-256. È il prov. fole, l'afr. foue, il co- 
masco folco, dal franco FuLK ; cfr. Meyer-Lubke, Bom, 
Et. Wh, 3559, DiEZ, Wh., 586; Godefroy, Dici. Anc, 
Frangais, IV, 48. 

fu[g]ir, fuggire, 182 = Bonvesin fusiir. 

f umor e, fumo 215. 

Gallahria, Calabria, 108. 

Guasconia, Guascogna 108. 

indetro, indietro, 60. 

infernor, dell' inferno, 337 ; cfr. Tobler, Bas Buch des TI, 
da Laodho, $. 35 ; Barsegapé, fogo infernor, 2373. 

Lucifér, Lucifero, 238. 

ma, mano, 55. 

maligno, il diavolo, 328, come il falso, 159 j il fello, 26, V ini- 
mico ecc. 

magnesia, 203; accentato magnèsia come in Giacomino da 
Verona (154) (Mussafia, Mon. Ani. Ili) e come podestà 
(61) — Altrove invece si ha l'obliquo: magestd, mageside 
(71-404). 



190 



mar (femm.) il mare, 412. 

marce, mercé, 89; cfr. Giacomino da Verona, 25 e 
Bonvesin (Mdssapia, M. J.., 112), Barsegapé, 1589. 

moiro, morto, 24. È un errore di penna. 

onpr omissione, promessa, 374. Ma si dovrà correggere : enpro- 
mission (v. 420). 

pa, pane, 56. 

paor, 90; Ugugon, 5, agen. (Flechia, Arch. Glott, Vili, 
375): arisost. Arch, Glott. XII. 419. 

pensasone, pensiero, 265; Bonvesin, Tre scritt. 35; Barse- 
gapé, ed. Keller, 2124. 

pera, pietra, 56. 

verino, 251-308. Anche nel v. 191 si ha a entro l'inferno 
sera perduti », che l'assonanza in a tonico impone di 
mutare in d sera portati ». Perduto non può essere tra- 
dotto « perduto », come il pensiero consentirebbe, per- 
chè al V. 80 si ha regolarmente perduo. Credo che in 
a perduto » sia da vedersi « per9ato » [da *pertusiato, 
fran. percé], con influenza di feruto, o, per l'appunto, 
di perduto. Alcuni antichi esempi di perziato (ferito) sono 
registrati dal Vocab. di Tommaseo e'Bellini. 

posta, dopo, 314. È anche in Ugugon e nei Proverbia s. na- 
tura feminarum st. 26. 

profetegar, profetare, 23. 

qualó, allora, 245-265-300-395-420. In origine è avverbio di 
luogo e non di tempo (quiloga). È in Bonvesin e in Bar- 
segapé sotto la forma quiló ; cfr. A. Mussafia, Mon, An- 
tichi, 116; Seifert, Glossar zu Bonvesin, 35-6; Arch. 
Glott. VII, 527-8. 

raswro, rasoio, 218; cfr. Giacomino da Verona, Babilonia 
Inf. 95. 

refuar, rifiutare, 302-303; cfr. Seifert, Gì. zu Bonvesin, 61; 
Mussafia, Mon. Ant., 116; Arch. Glott. VIII, 382, 
XII, 426. 



191 



Sansonia, Sassonia, 109. 

Scallonia, Ascalona?, 105. 

Sclavaria, Slavonia, 109 j cfr. Pa. gen. Sihaonia {8cav. — ) 

Arch, Glott, Vili, 389. 
sclopar, scoppiare, 306, mil. scopa; Monum, antichi, 118. 
siderato, [mal], sventurato, 268 ; cfr asirao, paralitico nei 

Mon. Antichi, 104, e ce rattrappito » in Bonvesin, Tre Scrit- 
ture I, 753 j III, 620 j Seifert, Glossar, 67. Nel Grisost. 

{A, Glott, XII, 431) sirrao, assiderato. 
stae, estate, 325. 
strupu, stupro, 19. 
Talia, Italia, 95-105. 
tenore, indugio, 140 e particolarmente nella frase senza tenor, 

senza algun tenore, come nella Leggenda di 8. Caterina 

ed. Mussafia (v. Glossario), in Ugu^on da Laodho (v. 

Gloss.) ; V. BiADENE Studi FU, Bom, II, 263 j S al vigni. 

Misceli. Oaix-Oanello, 355. 
«moria, ombra 1, [umbriva] j cfr. genov. Umbria {Arch. Glott. 

Vili, 400), a. lomb. ombrìa {Arch, Glott. XII, 417) e 

Bonvesin, Tre scritt. 5, 675. 
Ungaria, Ungheria, 109. 
Y avaria. Baviera, 109. 
vergungar, svergognare, 274 -, cfr. vergongato di Bonvesin 

(Mussafia, JDarstellung, §. 77; Seifert, Glossar, 75) e 

vergonga in Ugu§on, v. 1145, vregonga nel Grisost. 

{Arch, Glott. XII, 639). 
versare, volgere, 16, cfr. deversar, Eeversare == stravolgere 

è nel Grisost. {Arch, Glott. XII, 426) e in Bonvesin 

Tre Scritt. I, 376. 
visare, vedi : avìsare. 
viso, visione, 2. 
sunta, arrivo, 209 j cfr. l'a-gen. guinta (juncta), Arch. Glott, 

Vili, 406. 



INDICE 



Gap IT. I. — La prima e Pultima opera di Uguc- 

cione da Lo di: il Libro e V Istoria. Pag. 5 

» II. — Accenni e motivi di dottrina pata- 
rinica nella poesia di Uguccione 
da Lodi » 27 

» III. — Altre due opere di Uguccione : il 
poemetto di Modena e il poemetto 
di Venezia e di Siviglia ... » 47 

» IV. — Il poema snlV Avvento deW Anticristo, » 69 

» V. — Riflessi di dottrine patariniche nel 

poema deW Anticristo .... » 91 

» VI. — La personalità storica di Uguccione 
da Lodi, rimatore cremonese del 
secolo XIII » 102 

» VII. — La biblioteca dell' « Arzobispo de 
Tarragona » e il codice del- 
l' Escuriale » 123 

B Vili. — Conclusione : V eresia patarinica e i 

primordi della poesia italiana. . » 133 

Il Poema bxlU^ Avvento deW Anticristo — Trascri- 
zione diplomatica del codice del- 
l' Escuriale » 143 

Il Poema &uìì^ Avvento dell' Anticristo — Ricostru- 
zione critica » 153 

Annotazioni critiche e filologiche ..... » 173 

Glossario » 187 



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